SAN PEDRO DE ALCÁNTARA
TRATTATO DELLA PREGHIERA
E MEDITAZIONE
Pietro d'Alcantara, (1499-1562), uno dei direttori spirituali di Santa Teresa d’Avila, fu Riformatore, e fondatore di alcune Province dei frati Scalzi di S. Francesco in Spagna. Il trattatello sull'orazione, fu tradotto quasi in tutte le lingue. Fu Canonizzato nel 1669 da Papa Clemente IX .
COMPOSTO DAL PADRE FRA' PEDRO DE ALCANTARA
FRATE MINORE DELL'ORDINE
DEL BEATO SAN FRANCESCO,
DIRETTO AL MAGNIFICO E DEVOTO SIGNORE
RODRIGO DE CHAVES,
ABITANTE DI CIUDAD RODRIGO
capitolo dodicesimo
ALCUNE AVVERTENZE DA TENER PRESENTI
IN QUESTA SANTA PRATICA
Tutto ciò che si è detto sin qui serve come materia di meditazione, che è uno degli aspetti principali di questo esercizio, perché solo la minima parte della gente ha bastante materia di meditazione e così, per difetto di essa, molti non possono fare bene questa pratica. Diremo ora, in breve, il modo e la forma con cui dobbiamo seguirla. Sebbene in questa materia il primo maestro sia lo Spirito Santo, l'esperienza ci ha tuttavia dimostrato che sono qui necessarie alcune avvertenze perché la strada per giungere a Dio è ardua e necessita di guida, senza la quale molti per molto tempo sono perduti e fuorviati.
Prima avvertenza
Questa sia dunque la prima avvertenza: quando ci mettiamo a meditare qualcuno dei pensieri suddetti, nel tempo e con le pratiche determinate, non dobbiamo restare attaccati ad essa tanto da considerare mal fatto procedere da essa ad un'altra, se in essa troviamo maggior devozione, maggior gioia, maggior vantaggio, poiché, dato che il fine di questo esercizio è la devozione, si deve considerare migliore ciò che più serve a questo fine.
Tuttavia, ciò non si deve fare per ragioni banali, bensì a ragion veduta. Così, se in qualche momento della propria orazione o meditazione si sente più gioia o devozione che in un altro, ci si trattenga in esso tutto il tempo che questo sentimento dura, anche se esso occupa tutto il tempo del raccoglimento. Perché se, come abbiamo detto, il fine di tutto è la devozione, sarebbe uno sbaglio cercare in un'altra parte, con incerta speranza, ciò che abbiamo già sicuro tra le mani.
Seconda avvertenza
La seconda avvertenza è sforzarsi di evitare, in questo esercizio di pietà, l'eccessiva concentrazione dell'intelletto e dedicarsi ad esso più con lo slancio e la tensione della volontà che coi discorsi e le elucubrazioni dell'intelletto. Senza dubbio, infatti, falliscono l'intento coloro che si pongono a meditare i misteri divini nella preghiera come se li studiassero per predicare, il che significa più dissipare lo spirito che raccoglierlo e andare più fuori che dentro di sé. Così si verifica che, terminata la preghiera, restano aridi, senza il frutto della devozione, superficiali e disponibili a qualsiasi banalità come erano prima. Difatti, in realtà, essi non hanno pregato, bensì parlato e studiato, il che è cosa ben diversa dalla preghiera. Costoro dovrebbero considerare che in questo esercizio noi giungiamo più ad ascoltare che a parlare. E per ben riuscire dunque a ciò, bisogna giungervi col cuore di una vecchietta umile e ignorante e più con la volontà disposta e preparata ad intendere e ad amare le cose di Dio che con l'intelletto aguzzato e intento a sviscerarle, poiché questo atteggiamento è proprio di coloro che studiano per sapere e non di coloro che pregano e pensano a Dio per piangere.
Terza avvertenza
La precedente avvertenza ci insegna come dobbiamo moderare l'intelletto e affidare tutto il nostro impegno alla volontà, ma anche a questa bisogna porre una regola e una misura, perché non sia ne’ eccessiva ne’ veemente nel suo sforzo, poiché bisogna rendersi conto che la devozione che vogliamo raggiungere non può essere raggiunta per forza come pensano alcuni, che cercano di ottenere le lacrime e la compassione quando pensano alla passione del Salvatore, con eccessiva sollecitudine a tristezze forzate e fittizie, perché questo serve solo a inaridire il cuore e a renderlo non disponibile alla visitazione del Signore, come ci insegna Cassiano (Collation 9 cap. 30).
Oltre a ciò, questi atteggiamenti sono soliti danneggiare la salute del corpo e a volte lasciano l'animo così intimorito dall'insipienza tratta dalla meditazione, che si ha paura di tornare ancora ad essa come a qualcosa che si è esperimentato come un fastidio. Ci si accontenti, dunque, di fare bene ciò che ci spetta, che è trovarsi presente a ciò che il Signore patì, guardando con occhi semplici e sereni, con cuore tenero, compassionevole e disponibile a tutto il dolore che il Signore voglia infonderci per quello che ha patito, più disposti ad accogliere l'effetto prodotto dalla sua misericordia che ad esprimerlo per forza. E non ci si angosci inoltre se questo effetto non si produce.
Quarta avvertenza
Da tutto quanto abbiamo detto, possiamo dedurre qual è la forma di attenzione che dobbiamo avere nell'orazione, perché, soprattutto qui, dobbiamo avere il cuore non abbattuto e fiacco, bensì vivo, attento e proteso verso l'alto.
Quando tuttavia è necessario impegnarsi con attenzione e raccoglimento del cuore, tanto d'altra parte bisogna che tale attenzione sia misurata e moderata perché non sia dannosa alla salute e di ostacolo alla devozione. Ci sono alcuni, infatti, come abbiamo detto, che si stancano la testa con l'eccessivo sforzo di concentrarsi in ciò che pensano.
Ci sono altri, invece, che, per evitare questi inconvenienti, se ne stanno deboli, dimessi e pronti a farsi portar via da tutti i venti. Per evitare questi estremi, bisogna tenere la giusta misura, così da non stancare la testa con l'eccessiva attenzione e da non lasciar vagabondare il pensiero dove vuole per disattenzione e fiacchezza. Come siamo soliti dire a chi cavalca un cavallo difficile, si tratta tenere le redini giuste, né tirate né lente, perché non torni indietro o proceda pericolosamente e così dobbiamo fare in modo che la nostra attenzione sia moderata e non forzata, attenta e non angosciata dallo sforzo.
In modo particolare, dobbiamo raccomandare di non stancare la testa con eccessiva attenzione all'inizio della meditazione, perché, quando si fa questo, mancano le forze per andare avanti, come mancano al viandante che, all'inizio della giornata, cammini troppo in fretta.
Quinta avvertenza
Fra tutte queste avvertenze, la più importante è che chi prega non si disanimi ne’ cessi dal suo sforzo quando non avverte subito la dolcezza di devozione che desidera. Bisogna attendere con umiltà e perseveranza la venuta del Signore, poiché dalla gloria della sua maestà, dalla bassezza della nostra condizione e dalla grandezza del compito a cui ci siamo accinti, dipende il fatto che molte volte restiamo ad attendere e a pazientare alle porte del suo sacro palazzo.
Quando dunque avrai pazientato un poco in questo modo, se il Signore verrà, ringrazialo per la sua venuta; se ti sembra che non venga, umiliati davanti a lui, riconosci di non meritare ciò che non ti è stato dato e contentati di aver fatto lì sacrificio di te stesso, annullato la tua volontà, crocifisso il tuo istinto, lottato con il demonio e con tè stesso e fatto almeno quanto spettava a te. Se non hai adorato il Signore con l'adorazione sensibile che desideravi, basta che tu lo abbia adorato in spirito e verità come lui vuole essere adorato (Gv 4, 23). E credimi, in verità, che questo è il frangente più pericoloso di questa navigazione, il luogo dove si mettono alla prova coloro che sono veramente devoti, e che, se ne esci bene, tutto il resto andrà a gonfie vele.
Infine, se proprio ti sembrasse una perdita di tempo insistere nella preghiera e stancarti inutilmente la testa, in tal caso non sarebbe sconveniente, dopo aver fatto tutto quello che potevi, prendere un libro di devozione e interrompere, al momento, la preghiera per la lettura; basta che la lettura non sia affrettata e superficiale, ma calma e partecipe di ciò che leggi, arricchita molte volte dalla preghiera, che è molto utile e facile da fare ad ogni genere di persona, anche se inesperta, soprattutto in questo cammino.
Sesta avvertenza
Non diversa e non meno necessaria di quella precedente è l'avvertenza che il servo di Dio non si accontenti di un qualsiasi piccolo piacere che possa provare nella sua preghiera (come fanno alcuni che, spargendo una lacrimuccia o provando una certa tenerezza di cuore, pensano di avere già esaurito il loro compito). Ciò non basta per quello che qui vogliamo raggiungere. Così come non basta perché la terra dia frutti una spruzzatina d'acqua che non fa altro che toglier di mezzo la polvere e bagnare la terra dall'esterno, bensì è necessaria tanta acqua da penetrare nel profondo della terra e da lasciarla pregna di umidità, così che possa dar frutti; è anche necessaria l'abbondanza di questa rugiada e acqua celeste per dar frutto di opere buone.
Proprio per questo, molto giustamente si consiglia di impiegare, per questo santo esercizio, il maggior tempo possibile.
E sarà meglio un lasso di tempo lungo piuttosto che due corti, perché, se lo spazio è breve, è sufficiente solo a porsi nelle adatte condizioni di spirito e ad acquietare il cuore, così che, dopo averlo acquietato, interrompiamo l'esercizio quando sarebbe ora di cominciarlo.
Scendendo più in particolare a delimitare questo tempo, mi sembra che. se è inferiore ad un'ora e mezzo o due ore, sia troppo poco per la preghiera, dal momento che molte volte si passa più di mezz'ora ad accordare la chitarra e a porsi nello stato d'animo adatto come ho detto e il resto del tempo serve per godere il frutto della preghiera. È vero che quando a questo santo esercizio ci si applica dopo altre pie pratiche, vale dire dopo il mattutino o dopo aver ascoltata o celebrata la messa o dopo qualche lettura devota o una preghiera, il cuore si trova già disposto e si accende prestissimo (come legna ben secca) a questo fuoco celeste. È peccato che la mattina presto sia tanto breve, perché è proprio il tempo più adatto a questa pia pratica.
Chi avesse tuttavia scarsità di tempo per le sue troppe occupazioni, non rinunci ad offrire la sua monetina come la povera vedova nel tempio (Lc 21, 2), perché se ciò non dipende dalla sua negligenza, colui che provvede alle creature conformemente alla loro natura e necessità, provvederà anche a lui in base alla sua.
Settima avvertenza
Analogo a questo ammonimento, ve n'è un altro simile, cioè che quando l'anima, nella preghiera o fuori di essa, abbia qualche particolare visitazione del Signore, non la lasci passare invano, bensì approfitti dell'occasione che le si offre, poiché certo con questo vento si navigherà, in un'ora, di più che, senza di esso, in molti giorni. Così si dice che facesse san Francesco, di cui scrive san Bonaventura, che aveva tanta preoccupazione di ciò che, se il Signore giungeva a lui durante il cammino con qualche particolare visitazione, faceva andare avanti i compagni e se ne stava fermo fino a che aveva finito di assaporare e di gustare quel boccone che gli veniva dal cielo. Coloro che non fanno così sono puniti con la sofferenza di non trovare Dio quando lo cercano, poiché quando lui li cercava non li ha trovati.
Ottava avvertenza
L'ultima e più importante avvertenza è di cercare di fondere in questo santo esercizio la meditazione con la contemplazione, facendo dell'una gradino per salire all'altra, per cui occorre sapere che il compito della meditazione consiste nel considerare con diligenza ed attenzione le cose divine, passando dall'una all'altra per trarre da esse nel nostro cuore qualche reazione o sentimento, come chi colpisce una pietra focaia per trame qualche scintilla. La contemplazione consiste nell'avere già tratto questa scintilla, cioè nell'avere già trovato la reazione e il sentimento che si cercava e nello stare quieti e silenziosi a godere di essa, non con tanti discorsi ed elucubrazioni dell'intelletto, bensì con una semplice visione della verità.
Per questo dice un santo dottore che la meditazione trascorre con la fatica e con frutto, mentre la contemplazione trascorre senza fatica e con frutto; l'una cerca, l'altra trova, una mastica il cibo, l'altra lo gusta, una passa in rassegna le cose e ne trae considerazioni, l'altra è appagata da una semplice visione delle stesse, perché ne possiede già l'amore ed il gusto; infine, l'una è il mezzo, l'altra il fine, l'una è strada e movimento, l'altra la meta di questa strada e di questo movimento.
Da ciò si deduce una verità molto ovvia, che tutti i maestri della vita spirituale insegnano (ma che è tuttavia poco capita da coloro che la leggono), che cioè come, quando si è raggiunto il fine, non si ha più bisogno dei mezzi, nello stesso modo in cui raggiungendo il porto cessa la navigazione, così quando, mediante lo sforzo della meditazione si giunge al riposo e alla gioia della contemplazione, si deve cessare da quella pietosa e faticosa ricerca. Contenti della semplice visione e memoria di Dio (come se lo si avesse presente) si deve godere dei sentimenti che suscita, ora d'amore, ora di ammirazione, ora di gioia o cose simili.
La ragione per cui si da questo consiglio è che, poiché il fine di tutto questo sforzo consiste più nell'amore e nelle reazioni della volontà che nella speculazione dell'intelletto, quando la volontà è già afferrata e presa da queste reazioni, si devono evitare, per quanto ci è possibile, tutti i discorsi e le elucubrazioni dell'intelletto, perché l'anima nostra si impegni in ciò con tutte le sue forze senza disperdersi negli atti di altre facoltà.
Per questo, un padre della Chiesa consiglia che, quando ci si sente infiammati dall'amore di Dio, si interrompa ogni discorso e pensiero per alto che sia, non perché sia cattivo, ma perché in quel momento impedisce un bene più grande, il che non vuol dire altro che si deve interrompere il movimento quando si è giunti alla meta e lasciare la meditazione per amore della contemplazione. Ciò in particolare si può fare alla fine di tutto l'esercizio, cioè alla richiesta dell'amore di Dio, di cui prima abbiamo trattato; in primo luogo perché si presuppone che lo sforzo dell'esercizio compiuto abbia prodotto qualche effetto e sensazione di Dio, poiché, come dice il sapiente, è meglio la fine che l'inizio della preghiera (Qo 7, 8), in secondo luogo perché, dopo lo sforzo della meditazione e della preghiera, è giusto dare un po' di sollievo all'intelletto e farlo riposare in seno alla contemplazione. In questo tempo, quindi, si respingano tutte le immaginazioni, taccia l'intelletto, riposi la memoria e ci si affidi a nostro Signore, pensando che stiamo alla sua presenza e non abbiamo bisogno in quel momento di riflettere intorno ad aspetti particolari di Dio.
Ci si accontenti della conoscenza di Dio che si ha per fede e si applichino la volontà e l'amore, questo che può abbracciarlo e quella in cui sta il frutto di tutta la meditazione, poiché ciò che di Dio può conoscere l'intelletto è quasi nulla mentre la volontà può molto amarlo. Ci si rinchiuda in se stessi, al centro della propria anima, dov'è l'immagine di Dio e si stia attenti a lui come chi ascolta uno che parli da un'alta torre o come se si avesse solo lui dentro il proprio cuore o in tutto il creato non ci fosse altra cosa che lui. Ci si deve dimenticare anche di se stessi e di ciò che si fa, perché come dice uno dei padri la preghiera è perfetta quando chi prega non si ricorda di stare pregando (Cassiano, Collat. e Dionis. Areop., cap. 2°). Non solo alla fine dell'esercizio, ma anche in mezzo ad essa e in qualsiasi altro momento in cui ci colga questo sonno spirituale e l'intelletto sia come assopito dalla volontà, dobbiamo fare questa pausa e godere di questo beneficio e tornare al nostro sforzo, dopo aver assaporato e gustato quel boccone.
Così fa l'ortolano quando irriga un solco e, dopo averlo riempito d'acqua, trattiene il filo della corrente e lo fa assorbire e diffondere nelle viscere della terra che lo ha accolto e poi, una volta fatto questo, torna ad aprire il getto dell'acqua perché ne riceva ancora e meglio resti irrigata. Quello che allora l'anima prova, la luce di cui gode, la pienezza, la carità e la pace che riceve non si possono spiegare a parole, poiché qui è la pace che trascende ogni senso e la felicità che nella vita si può attingere.
Ci sono alcuni che, così presi dall'amore di Dio, quando si mettono a pensare a lui, appena la memoria del suo dolce nome intimamente li pervade, hanno tanto poco bisogno di considerazioni o di discorsi per amarlo, quanto la madre o la sposa per compiacersi, quando gliene parlano, del loro figlio o sposo.
Ci sono altri che non solo nella pratica della preghiera, ma anche fuori di essa, sono così assorti e imbevuti di Dio, che si dimenticano di ogni cosa e di se stessi per lui. Se giunge a questo anche il folle amore di uno sciagurato, quanto più lo potrà l'amore dell'infinita bellezza di Dio, dal momento che la grazia non è meno potente della natura e della colpa? Quando l'anima avverte questo, in qualsiasi momento della preghiera, non deve mai trascurarlo, anche se in ciò si consuma tutto il tempo, senza pregare o meditare altre cose che si erano prefisse, a meno che non se ne abbia l'obbligo. Dice infatti sant'Agostino che si deve interrompere la preghiera vocale se per caso impedisce la devozione e che si deve interrompere la meditazione quando è di impedimento alla contemplazione (In Enchirid.).
Bisogna anche rilevare che se bisogna interrompere la meditazione per l'emozione per salire dal meno al più, così al contrario, a volte, bisogna lasciare l'emozione per la contemplazione quando l'emozione è così violenta da far temere qualche rischio per la salute se si insiste in essa, come molte volte accade a coloro che, senza questa avvertenza, si dedicano a questo esercizio e lo compiono senza prudenza, attratti dalla forza della divina dolcezza. In questo caso, come dice un padre della Chiesa, è un buon rimedio lasciarsi andare a qualche sentimento di compassione, meditando un poco la passione di Cristo, i peccati e le miserie del mondo, per dare al cuore sfogo e sollievo.
a cura del Rev. Padre Pasquale Valugani
Milano :
Pontificia editrice arcivescovile G. Daverio, stampa. 1953
LAUS DEO
Pax et Bonum
Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano