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giovedì 19 ottobre 2017

IL PATRIARCA DEI CERTOSINI SAN BRUNO - PARTE SECONDA.


IL PATRIARCA DEI CERTOSINI
SAN BRUNO

I PRIMI ANNI DI BRUNO
I sei compagni lo chiamavano << maestro Bruno >>…
Non solo perché era maggiore di essi ed aveva un tempo isegnato a Reims, ma altresì per deferenza, per rispetto. Egli esercitava su di loro un’autorità morale che il suo solo passato non spiegava e che di fatto s’irradiava ad ogni istante da tutta la sua persona. Se essi eran venuti fino al Deserto di Certosa, se si slanciavano in quella audace impresa, era perché egli li aveva guidati, tratti al suo seguito, perché aveva chiarito per ognuno di essi la chiamata di Dio ed ispirava loro fiducia. Tanta bontà, tanto equilibrio, tal desiderio di cercar Dio con un amore assoluto e totale li avevano conquisi, li conquidevano ancora. Da lui poi era stato fatto ed attuato il progetto. Chi era, dunque, quest’uomo da esercitare sui suoi compagni un tale influsso?
Delle sue origini non si sa quasi nulla. Solo tre fatti sono certi. Nacque a Colonia - era pertanto di stirpe germanica - ed i suoi genitori non erano senza nobiltà od almeno senza una certa notorietà nella città. Verso la metà del XVI secolo si affermò che apparteneva alla famiglia von Hartenfaust, si giunse perfino a precisare che discendeva dalla << gens Aemilia >>; ma l’affermazione sembra gratuita: a stento poggia su una tradizione orale che trasmettevasi a Colonia. In una Carta, la cui autenticità è sfortunatamente contestata ( Carta del 2 Agosto 1099 ), Bruno viene presentato nell’atto di rifiutare un’importante donazione di Ruggero, conte di Sicilia e Calabria.
<< Egli rifiutò, dichiara il testo, dicendomi di aver abbandonato la casa paterna e la mia, in cui aveva occupato uno dei primi posti, al fine di poter, libero dalle cose di questo mondo, servire il suo Dio >>. Sovente i documenti apocrifi camuffano la loro non autenticità sotto particolari veri: sarebbe questo il caso?
Quando nacque Bruno? Non lo sappiamo, ma stando alla data - certa - della sua morte ( 6 Ottobre 1101 ) ed agli avvenimenti della sua vita della sua vita possiamo supporre, senza  gran rischio di errare, ch’egli nacque tra il 1024 ed il 1031; il che meglio s’armonizza con i fatti che contrassegnarono la vita di lui.
A Colonia stessa Bruno visse i suoi primi anni; e di tale periodo non ci è pervenuto alcun documento. Colonia! L’antica Colonia Claudia Ara Agrippinensis, che i Romani avevano creato tra il Reno e la Mosa, dal tempo di Ottone il Grande era indipendente dall’organizzazione comitale: Ottone aveva fatto ascendere al seggio arcivescovile il proprio fratello Bruno ( 953-965 ) e gli aveva trasmesso la suprema giustizia ed i diritti comitali per lui e gli arcivescovi, suoi successori. Quando nacque Bruno ( futuro fondatore della Certosa ) l’arcivescovo di Colonia chiamavasi Piligrim; nel 1028 egli incoronò Enrico III in Axi-la-Chapelle ed acquisì in tal modo per gli arcivescovi di colonia il diritto di incoronare l’Imperatore. Tra la storia di Colonia e quella di Reims al tempo di Bruno v’è una coincidenza che forse non è senza interesse far notare: verso lo stesso tempo in cui l’arcivescovo Manasse con la sua elezione simoniaca ed il proprio comportamento provocava a Reims i gravi disordini nei quali Bruno si trovo tragicamente impigliato, la Chiesa di Colonia versava in un’analoga condizione: l’arcivescovo Ildulfo ( 1076-1078 ) si affiancava all’imperatore di Germania Enrico IV contro il Papa Gregorio VII nella lotta delle Investiture; ed i successori di Idulfo, Sigewin ( 1078-1089 ) e Herimann III ( 1089-1099 ) continuarono la sua politica. Orbene, è poco verosimile che almeno nell’intervallo di tempo tra il 1072 ed il 1082 Bruno non abbia mantenuto relazioni con i suoi di Colonia; sarebbe stato quindi informato di ciò che avveniva nella sua città natale… Se tale ipotesi è ammissibile, la grande prova di coscienza che lo indusse a lasciar Reims ed a contrapporsi all’arcivescovo Manasse gli venuta dalle due Chiese a lui più care.
Ma ritorniamo ai primi anni di Bruno. L’arcivescovo Bruno I col suo genio organizzatore aveva fatto di Colonia non solo la prima città della Germania, ma atresì una città d’importanza mondiale. Codesto statista era al tempo stesso assai portato alle cose spirituale; favorì l’eremitismo ed il monachesimo, edificò chiese e fondò Capitoli di canonici, sicché la città venne chiamata << Santa Colonia >> o << Roma germanica >>. Quando Bruno, il futuro Certosino, era bambino, Colonia viveva ancora di detto incremento religioso datole dall’arcivescovo Bruno I: essa non contava meno di 9 collegiate, 4 abbazie, 19 chiese parrocchiali. In quel tempo solo i monasteri e le chiese avevano scuole in cui i giovani potessero avviarsi allo studio delle lettere. A quale di tali scuole Bruno venne affidato? Probabilmente non si saprà mai con certezza. Ma poiché un giorno fu nominato canonico della collegiata di San Cuniberto, legittimamente si può dedurne che con detta collegiata avesse avuto un particolare legame: e tale legame non sarebbe forse stato d’ordine familiare - oggidì diremo parocchiale - e, per conseguenza, scolastico?
Un fatto, per altro, sembra incontestabile: fin dai primi studi Bruno manifestò doni intellettuali abbastanza rari dato che ancora giovane - tenerum alumnum, diranno più tardi i canonici di Reims - da Colonia fu inviato alla celebre scuola della cattedrale di Reims. Lì vivrà ormai: i suoi soggiorni a Parigi, a Tourus od a Chartres sono creazioni della leggenda. Reims contrassegnerà veramente Bruno a tal punto che, trascurando le sue origini germaniche, più in là lo si soprannominerà << Bruno Gallicus >>, Bruno il Francese.
Le scuole remesi, e soprattutto quella della cattedrale che Bruno frequentò, da più secoli godevano gran fama. Gerberto, che un giorno sarebbe Papa Silvestro II, ne era stato rettore dal 970 al 990 circa, e dal suo genio erano state come illuminate. Verso la metà dell’XI secolo l’arcivescovo Guido di Chastillon diede agli studi un nuovo impulso. Quando Bruno andò a studiarvi, le scuole remesi erano giunte ad un certo qual apogeo: gli allievi affluivano dalla Germania, dall’Italia, da tutta l’Europa. Tra quella gioventù la personalità di Bruno s’impose all’attenzione dei suoi maestri. In quel tempo il sapere era enciclopedico, e le scienze profane servivano, per così dire, di preambolo alla teologia. Dopo aver appreso la grammatica, la retorica e la filosofia, - vale a dire dopo essere passato per il trivium - lo studente dedicavasi all’aritmetica , musica, geometria e astronomia, che costituivano il quadrivium. Allora solamente ci si applicava allo studio della teologia, considerata come il coronamento di tutto il sapere umano. Ma se un medesimo maestro, come sovente avveniva, doveva percorrere con gli stessi alunni l’intero corso degli studi, - fu questo segnatamente il caso di Gerberto, che eccelleva nelle matematiche come nelle lettere e la teologia, - gli era consentito di prendersi una certa libertà nella ripartizione delle discipline. Il metodo d’insegnamento era la lectio, la lettura commentata di autori antichi che facevano autorità in materia. La teologia stessa seguiva detto metodo: esso consisteva principalmente nella lettura della Bibbia che il maestro commentava poggiandosi sui Padri della Chiesa.
Tali furono gli studi di Bruno. In quel tempo l’<< écolàtre >> di Reims chiamavasi Hermann o Hermann. Non era dotato della vastità di genio d’un Geberto, aveva almeno fama di teologo di gran merito.
Si presta fede ai Titoli Funebri, Bruno si distinse in filosofia e teologia. Ma le lettere che abbiamo conservato di lui provano che non ignorava nulla della retorica… La cronaca Magister d’altronde dichiara che: << Bruno… fu bene istruito tanto nelle belle lettere, quanto nelle scienze divine >>. A tale periodo di studi risale, se si presta fede ad una tradizione che sembra fondata, una breve elegia Sul Disprezzo del Mondo, che per la prima volta ci manifesterebbe di lui, un’assai preziosa tendenza degna di nota. Detto componimento è scritto in eleganti e sobri distici, ben ritmati; esso è sul tipo di esercizi poetici che allora si facevano nelle scuole umanistiche. Ma qui ci interessa il pensiero più che la forma. 
Ecco l’elegia:
<< Il Signore ha creato tutti i mortali nella luce,
Affinchè mediante i loro meriti conseguivano le
                                   ( supreme gioie del Cielo.
Felice di certo colui che incessantemente tiene la
                                            ( mente rivolta lassù,
e, vigilante, si guarda da ogni male!
Ma felice altresì che si pente dal peccato commesso,
E chi sovente suol piangere la propria colpa.
Purtroppo gli uomini vivono come se la morte non
                                                     ( seguisse la vita,
e come se l’inferno fosse una favola vana.
Mentre l’esperienza insegna che ogni vita si dissolve,
                                                               ( con la morte,
e la divina Scrittura attesta le pene dell’Erebo!
Vive del tutto infelice e da insensato chi tali pene
                                                             ( non teme;
morto, ne patirà l’ardente rogo.
I mortali tutti cercano pertanto di vivere
sì da non temere la palude dell’inferno >>.

Essendo Bruno quasi ventenne ed ancora studente alla scuola della cattedrale accade un avvenimento che dovette avere una profonda ripercussione sulla sua sensibilità religiosa: il Papa Leone IX si recò a Reims e vi convocò un Concilio. ( Notiamo il passaggio che lo stesso anno Leone IX visitò Colonia ). Il 30 settembre 1049 il Vicario di Cristo giungeva a Reims. Il primo ottobre fece la traslazione delle reliquie di San Remigio, che durante le incursioni normanne Hincmar aveva fatto trasportare a Epernay e che venivano così riportate alla celebre abbazia remese omonima del santo; il dì seguente Sua Santità consacrava la nuova chiesa della stessa abbazia di San Remigio. Quale devozione ebbe per lui Bruno! Lo sappiamo per puro caso dalla lettera a Rodolfo Le Verd: quando scrisse tale lettera Bruno trovavasi in Calabria ed era al termine dei suoi giorni; egli aveva lasciato la Francia e l’eremo di Certosa da una decina di anni. << Ti prego, così termina la lettera all’amico, di farmi recapitare la Vita di San Remigio, dato che le nostre parti e impossibile trovarla >>.
Appena terminate le feste di San Remigio, il 3 ottobre Leone IX aprì il Concilio. Numerosi arcivescovi, vescovi ed abati vi partecipavano; in esso si trattò soprattutto della simonia che in quel tempo insidiava la Chiesa e che con urgenza occorreva estirpare. Ci comparirono in giudizio parecchi vescovi che, rei convinti di aver acquistato il vescovato, dal Papa e dal Concilio vennero deposti e scomunicati. Quindi furono prese risoluzioni disciplinari per arginare il male… Bruno assistè alle predette feste ed ebbe conoscenza dei provvedimenti e delle risoluzioni conciliari, alle quali la presenza del Vicario di Cristo conferiva una straordinaria autorità e solennità.
Così all’alba della sua vita d’azione i grandi problemi della Chiesa erano posti dinnanzi alla coscienza di Bruno. Profondamente religioso e retto, nutrito della Parola di Dio e convinto dei grandi principi della fede, era indotto a riflettere sulla condizione della Chiesa, sulle necessarie riforme, e sulle orientazioni che bisognava ch’egli disse alla propria vita perché giungesse alla sua pienezza di valore e di fedeltà. In quel momento sembravagli che il Signore lo facesse propendere verso gli studi sacri lì, a Reims.
Nulla ci autorizza a pensare che fin d’allora egli vagheggiasse l’eremo. Al contrario partecipa da presso alla vita della diocesi, dedicandosi al tempo stesso al sacro insegnamento. Egli non sospettava che per una trentina d’anni gli avvenimenti lo avrebbero fatto entrare in una crisi drammatica in cui quanto aveva veduto compiere da Leone IX e dal Concilio gli sarebbe stato di luce ed avrebbe orientato le sue opzioni.

Andrè Ravier 


LAUS  DEO

Pax et Bonum


Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano



giovedì 5 ottobre 2017

IL PATRIARCA DEI CERTOSINI - SAN BRUNO. PARTE PRIMA



IL PATRIARCA DEI CERTOSINI
SAN BRUNO


UNA MATTINA DI GIUGNO DEL 1084...
Una mattina di Giugno del 1084, in prossimità della festa di San Giovanni Battista, un piccolo drappello di viandanti dal viso grave, poveramente vestiti, lasciava la residenza episcopale di Grenoble sotto la guida del giovane vescovo Ugo; essi si diressero verso il Nord prendendo la strada del Sappey. Oltrepassate le ultime case del villaggio, penetrarono nell’immensa foresta, valicarono il colle di Palaquit e giunsero al colle di Portes, a 1.325 metri di altitudine. Dal colle ridiscesero verso il villaggio di Saint-Pierre-de-Chartreuse per una vita che già fiancheggiava press’a poco il tracciato della strada odierna; ma un po’ prima di Saint-Pierre piegarono a sinistra e s’inoltrarono nella valle del Guiers-Mort.
Detta valle, molto stretta, andava ancor restrigendosi a poco a poco fino a chiudersi tra due rupi scoscese: solo il torrente ed il sentiero si aprivano un varco verso l’Ovest. 
Codesta << porta >>, che allora chiamavasi la Cluse, era il solo passaggio ordinario per chi veniva dal Sud. Un po’ più lungi, a destra, estendevasi per quasi 5 chilometri in direzione Nord - Nord-Est una valle bislunga, detta il Dèsert de Chartreuse, il cui punto più basso trovasi a 780 metri di altitudine ed il più elevato a 1.150 metri. Valle praticamente chiusa da ogni parte, su cui strapiomba un caos di montagne che si elevano, col Grand Som, oltre i 2.000 metri: per penetrarvi, oltre alla porta di la Cluse, v’era solo un altro accesso, sito a Nord-Ovest, il Colle di la Ruchère ( 1.418 metri ) - ma il villaggio di la Ruchère non era accessibile che attraverso il pericoloso valico del Frou - e due malagevoli sentieri, lunghi, difficili ed assai rischiosi, di cui uno veniva da Saint-Laurent-du Desert ad Ovest ( oggidì Saint-Laurent-du-Pont ), e l’altro da Saint-Pierre-d’Entremont a Nord, traversava la foresta di les Eparres, popolate di bestie selvagge, e valicava il Colle di Bovinant a 1.646 metri. In codesto deserto i nostri viandanti arditamente s’addentrarono per la porta di la Cluse; e poiché in detto luogo selvaggio cercavano il punto più selvaggio, risalirono fino alla sua punta estrema a Nord, là dove il deserto termina in una gola stretta tra montagne sì alte che il sole per la maggior parte dell’anno vi penetra appena: ancor oggi gli alberi tra i dirupi delle rocce vi si protendono verso il cielo in fusti fantastici, per raggiungere, almeno mediante la chioma, l’aria aperta la luce, il calore. Allora il piccolo drappello s’arrestò: si era arrivati. Il vescovo Ugo assicurò i compagni che lì precisamente dovevano costruire le loro capanne ed attuare l’ideale eremitico abbracciato. Accomiatatosi quindi da essi, ridiscese verso Grenoble con la sua scorta personale.
Rimanevano nel Dèsert sette uomini: maestro Bruno, già cancelliere e canonico della Chiesa di Reims, maestro Landuino di Lucca, teologo rinomato, Stefano di Bourg e Stefano di Die, ambedue canonici di San Rufo, Ugo, << che chiamavano “ il cappellano ”, perché solo tra essi adempiva le funzioni sacerdotali >>, ed inoltre due laici Andrea e Guerrino, che avrebbero adempito l’ufficio di Conversi. Questi sette uomini si erano risolti a condurre insieme vita eremitica e da un po’ di tempo cercavano un luogo adatto per mettere in atto il loro progetto. Bruno, mosso dallo Spirito Santo e sapendo con sicurezza quanto propizie alla solitudine fossero le foreste del Delfinato, era venuto a chiedere asilo e consiglio ad Ugo, Vescovo di Grenoble. E questi, per ispirazione avuta in un sogno meraviglioso, aveva scelto per lui e i suoi compagni il Dèsert di Chartreuse.
Secondo l’umana sapienza tale scelta era una follia. Tutto sconsigliava di porre un agglomerato umano permanente nel Deserto di Certosa, e specialmente nella estremità settentrionale di esso: il clima rigido, dalle assai abbondanti cadute di neve, il suolo molto povero, che avrebbe richiesto non poco lavoro per produrre a stento il necessario  al sostentamento degli abitatori, l’asprezza dei rilievi montani che rendeva difficile la silvicoltura, l’inaccessibilità del luogo per gran parte dell’anno, che in caso di necessità o d’incendio o di epidemia praticamente toglieva ogni speranza di pronto soccorso… La fondatezza di detti timori sarà difatti più volte confermata: il sabato 30 gennaio 1132 un’enorme valanga inghiottirà tutte le celle, salvo una, e sei eremiti ed un novizio vi periranno; bisognerà allora ritirarsi a due chilometri a Sud della punte del Deserto fino all’odierno sito della Gran Certosa.
Bruno ha ormai superato la cinquantina… E più d’uno dei suoi compagni, specialmente Laudino, han varcato le soglie della giovinezza.
Quale segreto desiderio li spinge ad affrontare quella solitudine, di cui Guio nelle sue costumanze due volte ricorderà l’austerità? Qual ritrovamento - e di quale perla preziosa - può farsi col dimorare << a lungo tra tanta neve e l’orrore di sì grandi freddi >>?.
Mistero della chiamata, che Dio fa udire a certe anime, alla vita di pura contemplazione e d’amore assoluto. Mistero di quelle vite nascoste, umanamente annientate con Cristo esinanito. Mistero della preghiera di Cristo nel deserto, durante le notti della vita pubblica e nel Getsemani; della preghiera di Cristo che ad ogni tappa della storia della Chiesa prolungasi in alcune anime privilegiate. Mistero di solitudine e di presenza al mondo, di silenzio e di irradiamento evangelico, di semplicità e di gloria di Dio.
Detto mistero cercheremo di cogliere nell’anima di Bruno...

Andrè Ravier.


LAUS  DEO

Pax et Bonum

Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano 

giovedì 9 febbraio 2017

TERESA MARGHERITA REDI DEL SACRO CUORE DI GESU' MONACA CARMELITANA SCALZA ( TERESIANA ) SANTA * 1747 + 1770 - PARTE DICIANNOVESIMA - FINE.




Teresa Margherita Redi 
 del Sacro Cuore di Gesù 
Monaca Carmelitana Scalza 
(Teresiana) 
Santa 
*1747 +1770 

Le anime amanti << discendono tutte tranquillamente nell’Oceano Divino, come la barca quando, arrivata alla foce, lascia il fiume, saluta la riva, e per un momento insensibile si trova nel gran mare >> ( MAUCOURANT. Prova religiosa sopra la castità. Medit. XXX. ). Tale fu il passaggio della terra al Cielo di Suor Teresa Margherita. 
Giunta al termine della vita, nella brevità dei giorni ella aveva compiuto una lunga carriera. Il Cielo era il luogo dove avrebbe effuso tutto il suo ardore; da dove avrebbe fatto brillare ai nostri occhi, più chiara, più amabile, la luce di sua virtù. Infatti era giunta a tanto la sua carità, da poter dire come San Paolo: << Ho combattuto la buona battaglia, ho finito il mio corso, ho conservata la mia fede; ormai altro non resta che mi sia data la corona di giustizia promessa da Dio a coloro che lo amano >>. ( II Timoteo, IV, 7, 8. ). 
E già era vicino il giorno in cui le religiose sue consorelle avrebbero assistito al tramonto placido, tranquillo, sereno, di quest’Astro splendidissimo: era vicino il giorno in cui la nostra giovane, sorridendo alla morte, sarebbe volata ai dolci amplessi del Signore, e del Paradiso, come astro non più destinato ad occaso, avrebbe mandato a noi raggi riflessi di quella luce, onde brillano in eterno i Beati. Anche il Padre Ildefonso, vedendo crescere in lei quelle pene di spirito di cui abbiamo parlato sopra, aveva un presentimento di perderla presto. << Gli impeti - così egli - che provava per unirsi a Dio, erano divenuti frequentissimi e gagliardi oltremondo; altro non pensava, altro non cercava >>. Nella relazione che lo stesso Padre fece al Sommo Pontefice Clemente XIV, dopo la morte di lei, aggiunse che << ella pareva presaga di morire, poiché specialmente in quell’anno si dava una certa fretta, particolare ferrosissima di operare in ogni maniera per Iddio e per la sua gloria >>. 
Era il 4 Marzo 1770, giorno di Domenica, e Suor Teresa Margherita si presentò al suo Confessore pregandolo a permetterle una confessione più minuta e più prolungata del solito, e di ricevere il giorno seguente la Comunione come se fosse l’ultima di sua vita. Il Padre Ildefonso stupì di questa insolita premura, sapendo che era costume della Serva di Dio ricever sempre la Santissima Comunione come per viatico; ma dopo quel momento non vi fece più caso. Sembrava che ella presentisse che negli ultimi momenti non avrebbe potuto ricevere il suo Gesù; perciò volle in quel giorno raccogliersi maggiormente nel divin Cuore, perché più facile e più sereno fosse il suo passaggio all’eternità. 
Anche le religiose attestarono di averla veduta uscire quel giorno dal confessionale << più lieta e contenta del solito e straordinariamente ilare nel volto >>; ma neppure esse ne fecero per allora gran caso. Il giorno seguente, lunedì 5 Marzo, si accostò insieme con le altre religiose alla Sacra Mensa. Quali fossero le sue interne disposizioni e i suoi affetti nel ricevere per l’ultima volta Gesù, ciascuno lo può immaginare. La sua preghiera, interrotta solo da lacrime e santi slanci, il suo volto straordinariamente infiammato, facevano abbastanza conoscere di qual sovrumana consolazione fosse ricolmo il suo cuore. Gesù era venuto a lei per alleviarne le pene che tanto l’avevano amareggiata ed infondere in quel cuore i tesori dell’amor suo che l’avrebbero confortata nel supremo momento del suo passaggio. Da allora parve che essa non vivesse più sulla terra, ma in Cielo. Una celeste visione sembrò davvero tornare a sorriderle; la visione di Gesù che la invitava alle nozze eterne del Cielo. Oh! Che cos’è una festa nuziale di questo mondo in paragone a quelle nozze lungamente vagheggiate, che formano per un anima grandemente innamorata di Dio la preoccupazione la più importante di questa vita? Quali saranno stati gli slanci, quali i ringraziamenti di Suor Teresa Margherita per il Signore che l’aveva finalmente chiamata all’eterna felicità del Cielo? Ella aveva già obliato le pene sofferte; era stata colpita, è vero, così da rimanere abbattuta; ma ecco che invece da restarne rotta e pesta, invece di battere sulla terra dura e maledetta, Dio l’aveva percossa e sostenuta. 
Nutrita dalla stessa Carità, non le restava ora che morire per forza di carità. Ed infatti apparve da quel momento tutta rapita in Dio; e, in tale stato di raccoglimento, passò tutto il giorno del lunedì e del martedì, senza che apparisse alcun sintomo di male. Sul far della sera, circa le ore sei, dopo aver prestato le sue solite cure d’infermiera alla Madre Priora, ammalata alle gambe, andò la Santa dalla Madre Teresa Maria della Santissima Concezione ( Ricasoli ), anch’essa ammalata, e le disse con aria molto tranquilla che voleva insegnarle una bella pratica di conformità al divino volere di esercitarsi in tempo di malattia. Aveva con sé un libretto scritto dal Padre Binetti della Compagnia di Gesù, intitolato: << Pratica del Santo Amor di Dio >>, e da quello lesse la pratica suddetta. Quindi scese in refettorio per prendervi la refezione quaresimale. Era sola, perché l’ufficio d’infermiera le aveva impedito d’intervenire a quell’atto insieme con la Comunità. Postasi appena a sedere, le si svegliarono improvvisamente dolori viscerali così spasmodici, che l’obbligarono a fuggire da quel luogo per andare alla propria cella. Ma non potè; ed a stento entrò in una cella terrena, poco discosta dal refettorio, dove, inginocchiata presso un letto, aspettò che le si lenisse alquanto lo spasimo. Potè finalmente trascinarsi alla sua cella; e qui, incrudelitisi maggiormente quei dolori, cadde a terra, e domandò aiuto. La Madre Maria Vittoria della Santissima Trinità ( Martini ), che passava di là, accorse prontamente e, trovata la Serva di Dio prostesa sul pavimento, l’aiutò ad alzarsi e a coricarsi sopra quel letto, che doveva essere come la croce da cui avrebbe spiccato il volo verso il Cielo. 
La cella della Santa offriva una scena commovente; tutte le religiose erano accorse e, in attesa del medico, pregavano in silenzio. Il letto dell’infermiera divenne come una cattedra dalla quale, martoriata dai più acerbi dolori, ella avrebbe dato alle consorelle l’esempio delle più eroiche virtù. Di tratto in tratto si udivano gli slanci del cuore, che erano fervorosissime invocazioni al suo Divino Sposo, e accenti di piena uniformità ai Suoi voleri. Il suo amore le suggerì di pregare le religiose consorelle che la circondavano a recitare cinque volte il Gloria Patri in onore del Sacro Cuore di Gesù, dicendo << che attribuiva a di Lui grazia speciale il non essere morta al primo accesso dei dolori >>. 
Che cos’era che a quell’anima tanto bramosa di morire faceva riconoscere per grazia singolare il prolungarsi di poche ore i suoi patimenti, se non l’ardente desiderio d’assomigliarsi maggiormente a Gesù, con un’agonia più lunga e più atroce? E veramente atroci furono i suoi dolori. Li tollerò per tutta quella notte e il giorno seguente fino alle tre pomeridiane, quando la morte si presentò al suo letto, spoglia però dell’orrore che sempre circonda, apportatrice invece di un premio da tanto tempo desiderato. Oh, quando si è menata una vita angelica, la morte vibri pure il suo colpo; ella non avrà gran cosa da rapire! 
Intanto la Santa, tenendo come impresse le labbra sui piedi del Crocifisso di ottone che teneva in mano, quello stesso che da sana portava sempre sul petto, non si saziava di proferire i nomi dolcissimi di Gesù e di Maria, e con tanta tenerezza che quelle religiose frenavano a stento le lacrime. Stette molto tempo in tale posizione, e solo quando le portarono nella cella le Reliquie del Patriarca San Giuseppe e della Santa Madre Teresa , i suoi occhi si posarono a lungo sopra di esse, come per raccomandarsi alla loro potente intercessione. 
Il suo amore al patire le fece ricusare il sollievo della camicia di lino, che la religione, in tali circostanze, concede di sostituire a quella di lana. E fu necessario il comando della Superiora perché l’accettasse con segno di gratitudine e di rassegnazione. 
Le prime cure a lei apprestate furono alcune gocce di laudano, che essa prese protestando di non meritare tale attenzione. Le religiose facevano a gara per avere la consolazione di assisterla in quella notte; ma la sua umiltà non poteva permettere che alcuna si sacrificasse per lei; onde, a forza di replicate preghiere, ottenne che tute si ritirassero, dicendo che a lei non si dovevano tanti riguardi. E ci volle un altro comando dell’obbedienza perché si contentasse che rimanesse nella sua cella una giovane di servizio, per assisterla. Obbedì senza replicare; e l’unico incomodo che durante la notte dette a quella fanciulla, fu di raccomandarsi alle sue orazioni e di pregarla istantemente di mettere ogni diligenza di non fare il menomo rumore per non disturbare il riposo delle altre. Per sé non cercò mai il più piccolo sollievo; e, sempre con gli occhi fissi sull’immagine di Gesù Crocifisso e con le labbra sulle piaghe di Lui, non si saziava d’imprimervi i più teneri baci e d’invocarne il Santissimo Nome. << Il suo cuore - scrive Mons. Albergotti - non aveva altra sollecitudine che uniformarsi a quel Divino Esemplare; e, godendo di essere in grado di potergli rendere pene per pene, si occupava tutta nell’offrirgli i propri patimenti >>. Intanto il male si faceva sempre più crudo; ella si trovava come immersa in un bagno di gelido sudore, e tutto il corpo, per gli atroci dolori, tremava come fosse preso da fiera convulsione. In tale stato passò tutta la notte, e non fu udito mai dalla sua bocca il più lieve lamento, lieta di offrire al Crocifisso Signore i suoi patimenti di corpo e di spirito, che concorrevano insieme a renderla vera immagine dell’Uomo dei dolori. Giunta appena la mattina, suo primo pensiero fu di pregare che si mandasse a riposo la giovane che l’aveva assistita. Quindi, alle religose che la richiesero come stava, rispose con tranquillità ed umile dolcezza << che i suoi dolori non erano eccessivi e che stava meglio della sera precedente >>. Segno che il male era ormai insuperabile, e l’infiammazione volvulosa durante la notte era degenerata con cancrena. Poi quasi dimentica dei propri dolori, come se non avesse avuto altro pensiero che per le sue care inferme, ricordò alle consorelle che la circondavano di far provvedere una certa erba necessaria alla medicatura delle piaghe della Madre Maria Maddalena di Gesù, priora; quindi mandò a vedere come stava la Madre Teresa della Santissima Concezione ed a sentire se le bisognasse qualche cosa. Stupivano le religiose di tanto spirito di carità manifestato dalla Santa anche nelle penose condizioni in cui si trovava. Ma come poteva diportarsi diversamente ella, che tante prove aveva date della sua eroica carità? 
<< L’uomo - riflette Mons. Albergotti suo biografo - mai meglio si conosce che alla morte. E allora che il cuore si abbandona a se stesso e le sue azioni si manifestano, quali in vita furono gli abiti suoi; non facendosi altro per lo più in morte, che confermare con gli ultimi respiri ciò che si è fatto in vita >>. 
Durante la mattina tornarono a visitarla i medici, e per ultimo tentativo stabilirono di estrarle sangue da un piede. Ciò non servì che a far conoscere sempre più da quale spirito di carità fosse animata. Benchè in istato tanto infelice, non potè soffrire che fosse rimproverata un’infermiera che non aveva preparato il necessario per quella piccola operazione; quindi, con voce di moribonda, pregò la zelante riprenditrice a non sgridarla, dicendo << che per lei tutto bastava, né importava che le cose fossero meglio aggiustate >>. 
L’ora fatale si approssimava a grandi passi; e quel tenero cuore, distaccato ormai dalla terra, sembrava sfidare la morte che s’avanzava a reclamare i propri diritti. Ma chi è crocifisso con Cristo non teme l’ora del prossimo dissolvimento; la morte è come un angelo di consolazione che discende a raccogliere lo spirito purificato dai patimenti, per trasportarlo nella dimora dei Santi. Più si avvicinava quell’ora, , più Suor Teresa Margherita si raccoglieva in se stessa. La sua calma, la sua dolcezza, il completo possesso di se medesima, il suo sguardo ardente al Crocifisso che ripetutamente premeva sulle labbra, il suo commovente abbandono nelle mani di Dio, tutto rivelava un’anima grande e già cittadina del Cielo, tutto edificava e commoveva fino alle lacrime le buone sorelle che la circondavano. Ma quanto sarebbe stata più grande la felicità di quel cuore, se in quegli estremi avesse potuto ricevere Gesù! Il male non glielo permise; e le religiose, credendo che la morte non fosse così repentina, non vi pensarono neppure in quei brevi momenti nei quali, cessato il vomito, lo avrebbe potuto. Ciò che la consolava però, era il pensiero di aver ricevuto Gesù per Viatico la mattina del lunedì, e, non potendo altro, volle passare il tempo che le rimaneva di vita in continue comunioni spirituali. 
Le parole che di tanto in tanto si udivano dalle sue labbra, erano di offerta di tutta se stessa quale vittima di amore e di espiazione. Il suo cuore era ormai, per motivo di puro amore, unito a quello di Gesù nelle agonie del Getsemani e nell’oblazione della Croce. Negli occhi stessi risplendeva tutta la sua bell’anima; le scintillavano di amore divino, e le lacrime che di tratto in tratto cadevano, nonostante il suo solito sorriso e lo sguardo ardente, rivelavano qual fosse il fuoco che tutta la consumava. Ora ella provava veramente ciò che ha scritto della morte di tali santi il Serafico Padre San Giovanni della Croce: << Il perfetto amore di Dio rende la morte gradevole e vi fa trovare la maggior dolcezza… L’anima è inondata da un torrente di delizie all’approssimarsi del momento in cui va a godere l’intero possesso di Dio. Venuta al punto di essere sciolta dalla prigione del corpo, pare a lei di contemplare già la gloria celeste, e che tutto ciò che è in lei, si trasformi in amore ( Fiamma viva d’amore ) >>. 
E tali furono veramente gli ultimi istanti di Suor Teresa Margherita. Nelle ultime ore parve che ella non sentisse più neppure i propri dolori; le gioie nascoste della contemplazione le facevano dimenticare le angosce dell’agonia. 
Immersa col pensiero nel suo Dio, aspettava che si spegnesse l’ultimo alito di vita che la rallentava in terra. Ed invero la vita se ne andava a stilla a stilla; le sue ultime forze si struggevano per sovrabbondanza di carità onde, come sopraffatta da una gioia arcana di paradiso, apparve nel volto trasumanata. Gesù le era presente; Egli disceso per portare la sua bell’anima a godere le dolcezze ineffabili di un eterno connubio; ella poteva ora esclamare col Serafico Padre del Riformato Carmelo: 

Di lui son io, 
 Ogni spirto è virtù per Lui si adopra, 
Già la mia greggia obliò, 
Né curo altro né pensò 
Che d’arder tutta in quell’amore immenso. 
 ( Cantico fra l’anima e Cristo suo Sposo - Strofa 28 ). 

In tale stato di consumazione durò fin verso le tre di sera; le sue ultime parole non furono che uno slancio d’amore verso Dio; quindi manifestò con molta tranquillità di sentirsi mancare, e nello stesso tempo fu assalita da una fiera convulsione interna che la lasciò semiviva. Fu allora che fu introdotto il M. R. Padre Pio Covari de’ Predicatori della Congregazione di San Marco che in quel tempo era confessore straordinario del Monastero: il quale, veduto l’imminente pericolo, le dette l’assoluzione e le amministrò l’Estrema Unzione. 
Quindi si incominciarono le preghiere degli agonizzanti, e l’angelica Suora rimase sempre immobile, come assopita in un’estasi ineffabile d’amore, riguardando sempre con due occhi di dolcezza e di mistero il Crocifisso d’ottone che teneva in mano. Dopo pochi momenti cambiò improvvisamente di sembiante; e, con gli occhi accesi d’insolita luce, con un dolce sorriso sul labbro, spiccava il volo da questa terra per riposare per sempre in quel Cuore Divino che aveva tanto amato. Aveva chiesto di non esser lasciata più a lungo sulla terra; aveva bramato di morire d’amore; ed ecco che il suo desiderio era stato esaudito. 
Essa si allontanava ora da questo esilio a guisa delle anime consunte dal fuoco della Divina Carità, le quali, come afferma il Santo Padre Giovanni della Croce, << muoiono nei gaudii ineffabili dell’amore, come il cigno canta più melodiosamente quando è preso a morire ( Fiamma viva d’Amore ) >>. 
Contava 22 anni, 7 mesi, 19 giorni di vita. Aveva passati al Carmelo soltanto 5 anni, ed in sì poco tempo, come giglio schiuso al mattino, aveva sparso dovunquue profumi e bellezze del Cielo. 
Il Signore l’aveva arricchita, come la Santa Madre Teresa, di tutti i doni di natura e di grazia. Alta, ben proporzionata; occhi azzurri, biondi e finissimi capelli, lineamenti improntati ad una bellezza celestiale, era come il riflesso dell’animo suo candidissimo che imponeva rispetto e venerazione. 
Tale la breve vita di quest’Angelo. Passò come una visione celeste, come un’alba; e, dopo aver illuminato coi suoi raggi il Carmelo ed il mondo, << come fiamma leggera che sale e s’innalza da se medesima, si distaccò dolcemente dalla terra e non vi lasciò che quel involucro materiale che portiamo oggi in trionfo, perché è stato toccato e trasfigurato dal più puro amore di Dio ( Mons. BOUGAUD, Panegirico di Santa Margherita Maria Ala coque ) >>. 

FINE 

FONTE: Padre Stanislao di Santa Teresa, dell’Ordine Teresiano dei Carmelitani Scalzi. Un Angelo del Carmelo, Santa Teresa Margherita Redi del Sacro Cuore di Gesù. 1934. 


LAUS  DEO

Pax et Bonum


Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano

lunedì 23 gennaio 2017

TERESA MARGHERITA REDI DEL SACRO CUORE DI GESU' MONACA CARMELITANA SCALZA ( TERESIANA ) SANTA *1747 +1770 - PARTE DICIOTTESIMA.




Teresa Margherita Redi 
del Sacro Cuore di Gesù 
Monaca Carmelitana Scalza
 (Teresiana) 
Santa 
 *1747 +1770 

Posseduta dal più vivo amore di Dio, Suor Teresa Margherita non aveva aspirato che a rendersi una fedele copia del suo Amore Crocifisso; ma la sua carriera doveva esser breve, e lo sposo Celeste si affrettava di renderla simile a sé per mezzo di quella spirituale purificazione che si compie nel santuario più intimo dell’anima e che Dio riserba alle anime sue predilette. Ed ecco che le radiose chiarezze che avevano fino allora illuminata l’anima sua, gli ardori serafici che le avevano fatto pregustare le gioie del Cielo, scomparvero ad un tratto. La luce della fede sembrò ecclissarsi in lei; la speranza, che sì viva aveva brillato ai suoi sguardi, parve estinguersi; della carità per il suo Dio non le parve restare che qualche ricordo di cosa lontana, lontana… Dal profondo della sua desolazione ripeteva col Santo Padre Giovanni della Croce: << Ah! Dove ti celasti, Amato mio, me in gemiti lasciando? ( Prima strofa del cantico Spirituale ) >>. E trepidante domandava al suo Direttore: << Padre, mi salverò? >>. Subito però, senza aspettare risposta, soggiungeva piena di fiducia: << Ma sì, che lo spero per l’amore e per la bontà infinita del mio buon Padre e per i meriti del suo e mio Gesù >>. 
Chi l’avesse veduta allora accorrere sollecita, come di consueto, al Coro, prestarsi volenterosa ad ogni atto di carità, mostrarsi affabile e giovale con le consorelle, non avrebbe certo potuto supporre ciò che passava nel suo interno. Uno sguardo supplichevole al Cielo era l’unico sollievo che di quando in quando si permetteva in mezzo a tanto martirio d’amore. 
Il Padre Ildefonso, ben addentro nella scienza mistica, dell’incalzare della prova presagiva non lontana la fine della sua diletta figlia spirituale. E tanto più se ne rese persuaso perché la sapeva ormai giunta a quello stato d’unione di fede con Dio, nel quale tali anime, senza una grazia speciale, non possono più vivere lungamente. Ecco come bene si esprime questo dotto Padre: << Di questo ultimo stato d’unione di fede con Dio me ne persuasi da questi contrassegni: dalla sublimità e semplicità di questa unione che la portava senza aiuto veruno né di sensi né d’immaginazione alla considerazione astratta e purissima delle più recondite e sublimi perfezioni della Divinità ed a formare concetti altissimi, molto dei quali o per manifestazione del suo interno o per ridondanza di cognizioni e di cuore, me li palesava. Dalla facilità e quasi connaturalezza di questa stretta unione con Dio, non trovando più ostacolo né impedimento alcuno ad essa neppure nelle sue molte gravose e diverse occupazioni esteriori che ebbe specialmente in que’ due ultimi anni di sua vita negli uffici impostile dall’obbedienza o suggeritile dalla carità, anzi sembrando che le servissero piuttosto di aiuto e di mezzo per volarsene più eccellentemente a Dio, e perciò anche nell’esterno comparve allora alquanto più disinvolta e corrente, come dissero a me quelle Religiose. Da una speciale richiesta che mi fece successivamente un anno dopo l’altro dei detti due ultimi d’imitare la vita nascosta di Gesù Cristo, e perché io nel concederglielo la prima volta mostrai destramente d’intendere più della vita esteriore e lontana da tutto quello che può avere specie di comparsa e di riputazione fra gli uomini, ella l’anno seguente con maggior premura mi chiese l’istesso, ricordandomi però modestamente ciò che altre volte mi aveva detto, che le cose esterne create ed umane né sue né altrui, di qualunque sorta fossero, non le davano per misericordia di Dio più il menomo fastidio né impaccio come se punto non esistessero e che bisognava in questo modo far conto che non vi fosse altro che Dio e l’anima. Io ben mi rammento che presi allora a spiegarle questa vita misticamente nascosta di Gesù Cristo su quelle divine parole dell’Apostolo “ Mortui estis, et vita vestra scondita est cum Christo in Deo ”. Ella mi mostrò allora di avere ottenuto appieno da me ciò che fin dall’anno antecedente mi aveva chiesto e penetrò sì profondamente il misterioso e ascetico sentimento dell’Apostolo e lo comparò e conciliò sì eccellentemente con quell’altro di Gesù Cristo “ Nemo venit ad Patrem, nisi per me ” e l’altro “ Qui videt me, videt et Patrem meum ” e finalmente con quello del medesimo Apostolo “ Justus autem meus ex fide vivit ” che bene intesi allora che ella era chiamata ad emulare per fede, quanto a creatura è possibile, la vita e le azioni interne, nascoste dell’intelleto e della volontà, vale a dire le sublimi cognizioni ed affetti dell’Umanità SS. di Gesù Cristo unita ipostaticamente al Verbo, e quindi col maggior sentimento di quello che anche prima in altre occasioni aveva già fatto, mi diceva spesso così o in altra simil guisa: “ Oh Padre che Bella scala, ovvero, che scala preziosa e inarrivabile ! ” che voleva ella dire impertransibile è il nostro buon Gesù. Dall’essere divenuti d’impedimento alla libertà dello spirito perfino i libri più devoti che nei primi tempi tanto avidamente leggeva, di maniera che nell’ultimo anno specialmente le dovei concedere di riserbarsi solamente alla lettura dell’Istruzioni dei novizi, della Disciplina Claustrale e dei Costumi manoscritti del santo Noviziato, ai quali conservò sempre l’affetto per la pratica esteriore delle virtù ed osservanze regolari più minute che insegnano. Dalla purità indicibile di sua coscienza e dall’orrore sempre maggiore a qualunque minimo difetto. Dall’umile rassegnazione nell’accettare da Dio e soffrire volentieri le sue apparenti aridità di spirito, attribuendole a proprio demerito ed ai suoi creduti difetti rilevati da lei in cose minutissime e che in altri state sarebbero atti di gran virtù. Dalla fortezza e magnanimità che si sentiva ogni giorno più d’intraprendere cose grandi e ardue per Iddio >>. 
Le lettere poi che a detto Padre scriveva, rivelano le agonie sostenute in quei giorni torbidi e tenebrosi. << Mi trovo - diceva in una di queste - in un abbandono interno così grande, che da tutte le parti non mi pare vedere spiraglio di luce; mi è un tormento solo il pensare dovermi applicare alle cose di Dio; pensi dunque come può andare il proseguimento. Trovandomi tanto all’oscuro e temendo in questo stato offendere molto Iddio, ho creduto conveniente ciò manifestarle per riceverne qualche consiglio… Gli antichi desideri appena si fanno sentire, e se per mezzo della lezione spirituale mi si riaffacciano alla mente, non vedo l’ora che sia finita la lezione per il combattimento che provo allora in me… Sento nel fondo del cuore che Iddio mi vorrebbe tutta sua, ma sorda mi faccio alle sue voci particolarmente ancora nella pratica delle virtù, nella quale trovo molto ripugnanza >>. 
Le care gioie, il suo solito sorriso d’amore, le rose e i fiori di primavera erano dunque in lei come sfumati ed appassiti. << Le fresche aure erano passate, non le restava che il dolore ( Santo Padre Giovanni della Croce ) >>. 
Tremò, pianse nel segreto del cuore… pianse molto, perché molto amava; sentiva nella sua anima squisita il vuoto grande che le si era fatto intorno, ed ella gemeva, anelando che una nuova strada le si aprisse davanti per giungere al suo Gesù. << Il più duro carnefice del suo spirito - così il Padre Ildefonso - era la stessa sua divina carità, che quanto più in lei si avanzava, tanto più le spariva dagli occhi della mente. Amava senza credere d’amare, ed a misura che si dilatava nell’anima sua il santo amore, cresceva il desiderio di amare l’Eterno suo Bene e la pena mortale nel credere di non amarlo… Di questa pena mortale di credere di non amare Dio, quanto più lo amava, me ne accertai dalle angustie mortali che continuamente mi manifestava: di non poter più senza amare Iddio come e quanto lo desiderava; e che le sarebbe stato un gran refrigerio la morte…; e insomma dal conoscerla quasi tutta trasformata continuamente da questo eccesso d’amore, che rappresentandole vivamente l’eccellenza e il merito infinito dell’oggetto amato, le compariva sempre più tenue e fiacco a misura che in lei anzi cresceva >>. Il tedio indicibile che aveva nell’orazione, la tormentava più di ogni altra cosa. Iddio aveva permesso all’angelo delle tenebre di avvicinarsi per tentarla; ed il maligno le rimproverava la sua infedeltà verso Colui che tante prove le aveva date del suo amore. Soffriva molto, e, vedendosi impossibilitata ad amare il Signore come avrebbe desiderato, esclamava: << Che cosa sarà di me?… >>. 
Stretta sempre alla Croce di Cristo, accettò con rassegnazione questo martirio di carità; piegò il capo alla prova, al dolore, sopportando tutto pazientemente, dolcemente, adorando l’altissimo volere di Dio, che veniva così sempre più purificandola per stringerla fra non molto al suo divin Cuore. Diceva di non amare e di non sapere amare il suo Dio, eppure non respirava che per lo zelo della sua gloria; per suo amore intraprendeva fatiche superiori alle sue forze, ed era insuperabile nel soffrire i dolori, desiderandone sempre dei nuovi. << Il suo pensiero - un biografo di lei ( Padre Teodoro di Santa Maria, Carmelitano Scalzo ) - era occupato sempre in Dio. I suoi difetti per lo apparenti, non già reali, le comparivano deformità d’ingratitudine orrenda, per cui troppo giustamente diceva che le punisse il Signore con quelle aridità in cui le sembrava di essere; e ne provava di fatto la pena sensibilissima. In questo stato, che è quello che i mistici paragonano a quanto mai può esserci di penoso anche nell’altra vita, andò agonizzando Suor Teresa Margherita veramente per poco tempo, ma per tanto che bastò a farle meritare il titolo di Martire di Carità. In questo breve giro di tempo, quasi da momento in momento cresceva in lei l’amore di Dio per il continuo alimento che gli somministrava con l’applicazione quasi continua della mente e del cuore in Lui, con l’esercizio non interrotto di sante operazioni. A proporzione poi che le anime in questo stato si avanzano in amore, si vedono esposte in pene più rigorose, poiché conoscendo meglio Iddio, vedono in lui un più profondo infinito, diciamo così, che nella luce affittisce sempre più le loro tenebre. Amando più vivamente, bramando di più amare, e scorgendo il desiderio stesso inferiore all’amabilità di Dio, se ne crucciamo d’una maniera, che questa lor pena è paragonata dalla Nostra Santa Madre Teresa e dal Nostro Padre Giovanni della Croce e dagli altri mistici, a quella del Purgatorio >>. 
E’ naturale, e ne fanno testimonianza moltissimi Santi, che nell’agonia di queste interiori ambasce l’anima brami di essere sciolta dai legami del corpo, per rivolarsene a Dio. I Santi, cui è tolta la visione interna del sorriso di Dio, si affliggono, in modo da morirne, di questa repulsa. Il loro cuore si spezza, la loro anima si appiglia ad un ultimo sforzo; essi desiderano, come San Paolo, la propria dissoluzione per essere con Cristo. Esposta alla prova più dura, Suor Teresa Margherita amò immensamente il suo Dio; anzi, a misura che quella grand’anima passava sui più irti sentieri del dolore, con slancio della più squisita tenerezza cercava raccogliersi sempre più nel Divin Cuore, dove più largo è più puro avrebbe emesso il suo respiro d’amore. Non deve dunque recar meraviglia che, in mezzo a sì forti aridità, conservasse esternamente quel suo fare giovale, quel suo aspetto che indicava un animo mite, dolce, mansueto, e che mai mi udisse uscire dalla sua bocca un lamento. Certo << era un prodigio di fortezza - dice il biografo sopra citato - per cui si presenta un’altra ragione di denominarla Martire occulta di Santo Amore >>. 
Consumata così dalle divine fiamme, aspettava quel giorno in cui sarebbe volata colà dove la chiamava potente il sospiro del suo cuore. E non era questa la grazia di cui aveva pregato quella religiosa morente che assistè con tanta carità? Le aveva detto, come ricorderà il lettore, che, in premio della sua assistenza, le ottenesse da Gesù di morire quanto prima, per poter così andare << ad amare Dio presto e senza fine e a goderlo >>. Questa santa religiosa non l’aveva dimenticata: la sua preghiera era stata esaudita, parve che ella stessa presentisse il suo termine; perché a quella foga infinita d’amore che tutta la consumava, sentì che non poteva ormai più reggere: il corpo, più presto ancora che ella stessa potesse immaginare, avrebbe ceduto al sovrumano sospiro dell’anima che si struggeva di rivolarsene a Dio. Poche settimane ancora e il suo corso sarà compiuto. Noi ora assistiamo all’ultimo ma più commovente periodo della vita di questa giovane angelica. Gli ultimi suoi giorni sono simili al tramonto placido, tranquillo, sereno, del sole in un giorno destate, che dalle alte cime dei monti sembra salutarci, per poi nascondersi al nostro sguardo fra piccole nubi di porpore e di viola. Ella stessa predisse la sua fine. Iddio parve tornare negli ultimi giorni, per breve intervallo, a sorridere a questa grand’anima, per rivelarle l’ora del suo trionfo. Il Divino suo Sposo che la chiamava, le aprì il futuro; e così ella potè accettarsi della sua morte: contro i giorni che le restavano a vivere, e trovò quello in cui avrebbe lasciato la terra. 
Già prima ancora che ella vestisse l’abito religioso, il Signore le aveva fatto conoscere che la sua vita sarebbe stata breve; poiché un giorno, facendo visita ad una certa Paoli, monaca del Monastero di S. Salvi, aveva detto: << Andremo tutte e due in Paradiso, ma la prima devo essere io >>. Ma ora che era sicura del suo vicino transito, lo predisse con maggiore risolutezza, certa esser quello il giorno della sua gioia suprema e delle mistiche nozze dell’Agnello. Essendo venuta in quei giorni al Monastero di Santa Teresa, a farle visita, la signora Teresa Rinuccini, che aspirava all’abito religioso nel Monastero S. Apollonia, ed avendo detto alla Santa: << Prima che io vesta l’abito religioso voglio tornare a farle una visita >>, ella le rispose: << Se mi vedrete! >>. Meravigliata quella giovane signora di queste parole, soggiunse: << Che forse la Madre Priora non sarà contenta? >>. E la Serva di Dio, sembrandole forse di aver detto troppo e di aver manifestato così il suo segreto, ripetè solamente le medesime parole: << Se mi vedrete >>. E realmente non fu possibile alla Rinuccini rivederla, perché prima della sua vestizione Suor Teresa Margherita era morta. 
Circa la metà di Febbraio, scrisse la padre, e fu questa l’ultima lettera. << Fu breve, ma sugosa - così lo stesso cavaliere Ignazio - ; mandandomi in essa un foglio bianco intagliato esprimente il Cuore di Gesù ed attaccato sopra carta di color rosso, mi raccomandò di custodirlo; quindi mi pregò di fare una novena secondo la sua intenzione e di procurarla da altre persone. La detta novena, all’adorabilissimo Sacramentato Bene, fu solo principiata cinque giorni avanti la sua felice morte >>. Ciò si rivela anche dai Processi Canonici: << Poche settimane prima della sua morte - così la Madre Maddalena Teresa San Francesco di Sales - rammentandole io la carità che mi aveva fatto di farmi fare la novena al Sacro Cuore per il buon esito della cura del mio occhio, mi disse: “ Ora mio padre ne fa un’altra per me e per una mia intenzione di gran premura ”; e non vi fu da sapere che cosa fosse, quantunque glie ne facessi istanze >>. 
Era questa la novena di preparazione al grande viaggio per l’eternità? Non lo sappiamo. E certo però che in quegli ultimi giorni una gioia arcana le si leggeva sul volto; benchè fosse amareggiata dalle più gravi pene di spirito, pure sembrava che ella già pregustasse le gioie che le eran dovute per premio della sua costanza. Dal suo cuore saliva come un inno continuo dei più sinceri e fervidi affetti. In lei si realizzava ora quanto nel Cantico Spirituale aveva scritto il Serafico Padre San Giovanni della Croce, riguardo alle anime già preparate a ricevere la ricompensa dei loro meriti: << Da quel punto - dice il Santo - la volontà della Sposa ( cioè dell’anima ) è interamente sciolta da tutto il creato, i legami dell’amore la congiungono strettamente al suo Dio, e la parte sensitiva dell’anima sua, con tutte le sue forze, le sue potenze, le sue inclinazioni, e completamente sottomessa alla parte spirituale. Tutte le sue passate resistenze furon troncate dal suo perfetto assoggettamento e, grazie alla sua lunga abitudine negli esercizi spirituali d’ogni genere, grazie alla lotta coraggiosamente sostenuta contro di lui, il demonio e finalmente vinto e cacciato lontano. L’anima, unita al suo Dio, è trasformata in Lui, gioisce in una prodigiosa abbondanza di ricchezze e di doni celesti, possiede quindi tutte le disposizioni tutta la forza necessaria per attraversare il deserto della morte e salire fino al trono glorioso preparato alle Spose di Cristo >>. 
In quei giorni infatti le espressioni più care al suo cuore erano quelle delle anime sitibonde di un eterno amore, e che invece sono condannate ad un esilio duro e prolungato. Onde ripeteva col Salmista: << Me misera o Signore, perché il mio esilio è stato prolungato! Troppo a lungo ho vissuto fra gli abitanti di Cedar e la mia anima troppo a lungo è stata rilegata quaggiù. La mia anima anela e si strugge per gli altri di Dio! Quando dunque mi sarà dato di venire e di comparire al cospetto del Signore? >>. Essa era veramente come una mistica colomba che, non sapendo più dove riposare il piede, picchiava alla finestra dell’arca. Il suo grido era simile al fervido accento di Giovanni: anch’essa faceva udire il suo gemito: << Viene , Gesù Signore, vieni presto! >>. E l’amante divino, come all’Apostolo vergine, rispondeva a quell’anima: << Si, presto verrò! >>. << Vieni più presto! >> sembrava riprendere quel cuore ardente. 
E che altro le rimaneva ora se non prepararsi alla venuta dello Sposo? Vi si preparò: ed oh quale preparazione fu la sua! Quanto apparve più bella, più amabile la luce sua virtù in quegli ultimi giorni! Quanto non abbiamo ora da ammirare e meditare! Quei giorni compendiano tutto il passato e annunziano il futuro. Un bisogno maggiore di purificarsi e di santificarsi ancora più, un nuovo slancio per tutto ciò che è sacrificio e dolore, ecco l’unico pensiero che occupava la mente di quell’anima eletta. Le sue preghiere avevano qualche cosa di maestoso, di soprannaturale; il suo volto apparve sempre come infiammato. Ella poteva ora ripetere con tutta sicurtà insieme a Santa Margherita Maria: << Io non ho bisogno che di immergermi nel Cuore di Gesù. O mio Dio, qual felicità di morire! >>. 

FONTE: 
Padre Stanislao di Santa Teresa, dell’Ordine Teresiano dei Carmelitani Scalzi. Un Angelo del Carmelo, Santa Teresa Margherita Redi del Sacro Cuore di Gesù. 1934. 


LAUS  DEO

Pax et Bonum


Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano

giovedì 19 gennaio 2017

TERESA MARGHERITA REDI DEL SACRO CUORE DI GESU' MONACA CARMELITANA SCALZA ( TERESIANA ) SANTA *1747 +1770 - PARTE DICIASSETTESIMA.




Teresa Margherita Redi 
del Sacro Cuore di Gesù 
Monaca Carmelitana Scalza 
(Teresiana) 
Santa 
*1747 +1770 

Dopo il fatto accennato, l’obbligazione più sacra di Suor Teresa Margherita, la sua occupazione più dolce, era di contemplare, di studiare e conoscere a fondo le disposizioni intime del Cuore di Gesù, per conformarvisi. 
La voce soave di Cristo le risuonava spesso alla mente: << Impara da me che sono mite ed umile di cuore >>; ed ella faceva dell’umiltà il suo studio intimo, della mortificazione il suo pane quotidiano. Al Divin Cuore confidava le sue risoluzioni, e, per meglio ricordarsene, soleva scriverle col proprio sangue. << Gesù mio - dice uno di questi scritti - voglio esser vostra a costo di qualsivoglia ripugnanza >>. << L’intelletto, la memoria ed i sensi esterni - dice un altro - bisogna talmente mortificare che diventino quasi spirituali, talmente che allora, ancor essi, insieme con l’anima, in Dio solo si pascolino, e possiam dire: “ Il mio cuore e la mia carne hanno esultato nel Dio vivente! ” >>. 
Avendo ben compreso il mistero della croce e delle spine da lei contemplato nel Cuore Divino, stabilì di appropriarsi gli oltraggi e le pene rappresentate misticamente in quegli strumenti di martirio. Come avrebbe potuto vivere senza la croce? E la croce che ella bramava era una croce pesante, simile a quella di Gesù; una croce ignominiosa, senza consolazione, senza conforto umano. Che gli altri avessero pure le più grandi consolazioni anche spirituali! A lei bastava solo salire al Calvario col suo Sposo Crocifisso, null’altro desiderando che partecipare ai suoi dolori, ai chiodi, alle spine, ai flagelli, senz’altra consolazione che quella di non averne affatto. << ogni mia consolazione - lasciò scritto - da Dio la desidero, in terra no, ma nel Cielo; poco mi curo di viver lieta, purchè io vivo religiosa. Di buona voglia io consegno il mio cuore in preda alle afflizioni, alle mestizie, ai travagli. Godo di non godere, perché a quella Mensa dell’Eternità, che mi aspetta, deve precedere in questa vita il digiuno. Non tolgo, ma differisco al mio cuore le gioie, perché allora senza tema di perderle riusciranno più gradite. Fuora di questa mura lasciai, insieme con le mie spoglie, ogni appetito che non fosse spirituale; tutti i miei desideri tengo al presente calcati e depressi, senza speranza che più si sollevino al mio petto. Niuna cosa maggiormente desidero, che la grazia di persistere a non desiderare cosa alcuna; e alle consolazioni terrene per me sta chiusa la porta del mondo e del cuore >>. Quali sentimenti degni veramente di cuore che si protestava di divenire una copia perfetta di Gesù Crocifisso! Qual sorte dunque non sarebbe stata per quest’anima ardente poter soffrire sempre in silenzio e finalmente morire sulla croce, oppressa da ogni sorta di miserie del corpo e dello spirito! Ella sarebbe rimasta volentieri quaggiù sino alla fine del mondo, per saziare questa fame e per estinguere questa sete. 
E come si espresse al suo Confessore, << non le sarebbe importato d’essere per tutta l’eternità condannata all’inferno, purchè il Signore le avesse concessa la grazia anche lì di amarlo sempre più, quanto avesse saputo desiderare >>. Il Confessore ne era stupito e, domandandole che cosa sarebbe di noi, oltre tutti gli altri indicibili tormenti di senso, in quella pena incomprensibile di non veder mai in eterno il nostro buon Dio, ella, risolutamente e senza esitare rispose: << Credo, Padre, che l’amore ce li renderebbe tollerabili, e forse anche dolci, perché il solo amore fa superare tutto, come in parte è seguito nei santi martiri >>. 
Per ispirazione divina si obbligò << a non lasciar mai occasione, che le si presentasse, di patire e di patire quel più che poteva, sempre in silenzio fra sé e Dio >>. Mantenne scrupolosamente questa promessa fino alla morte. L’amante del Divin Cuore volle fino all’ultimo respiro della vita usare mille industrie per poter sempre soffrire in silenzio e morire sulla croce insieme con lo Sposo Crocifisso. 
Il solo adempimento esatto della Regola carmelitana secondo le riforme di Santa Teresa è atto eroico di penitenza; ma al desiderio insaziabile di Suor Teresa Margherita questa austerità era insufficiente; ed il suo amore seppe trovare i modi i più ingegnosi per continuare a mortificarsi. Abbiamo già veduto come da bambina, così nell’educando di S. Apollonia come nella casa paterna, aveva incominciato ad affliggere la sua carne innocente con lasciare le cose più delicate, col passare molte ore della notte in orazione, e con l’usare anche qualche strumento di penitenza. Ma dopo che fu religiosa, non vi fu genere di mortificazione che ella non abbracciasse. La necessità di cibarsi e di dormire era per lei una vera croce. Non partiva mai senza della mensa; e, per quanto fosse affaticata e negli ardori dell’estate sentisse il bisogno di bere, pure, eccetto qualche volta che le fu imposto dall’obbedienza, fuori del tempo della comune refezione non entrò mai nella sua bocca una stilla di acqua. Molte volte nella mensa s’interdiceva il pesce o le uova o il vino; e si legge nelle deposizioni che << ne domandava licenza alla Superiora con tal grazia, disinvoltura ed efficacia, che era come impossibile il negarglielo >>. Pure quel poco che doveva prendere per mantenersi in vita, lo rendeva amaro e disgustoso spargendovi della cenere e dell’assenzio polverizzato. 
L’abito delle religiose è abbastanza tormentoso a cagione della sua rozzezza, per cui nell’inverno non si adatta troppo bene alla persona in modo da difenderla dal freddo, e nell’estate, per essere tutto di lana, compresa anche la tonaca interna, riesce veramente di pena continua. Anche i sandali non sono tanto comodi, perchè, essendo formate di tante trecce di rozza canapa cucite insieme, formano un suolo tutto disuguale e come solcato. Tutte ci soffrono, specialmente nel principio; ma Suor Teresa Margherita non fu contenta di questo: un altro modo trovò per tormentarsi i piedi, ed era il mettersi sotto le piante alcuni noccioli di ciliegia o alcuni piccoli sassi, che le accrescessero la pena nel camminare. Era solita di usare spesso questa penitenza, ma specialmente in quei giorni di comune ricreazione in cui sapeva di dover andare con le altre a passeggio nell’orto. 
Nell’estate sudava così abbondantemente, che era sempre immersa in quella traspirazione noiosa che ella usava tergersi col fazzoletto di lana anziché con quello di lino. Nell’inverno andava molta soggetta ai geloni, per cui le si enfiavano le mani fino a scoppiare. Invece di curarli, li inaspriva stropicciandoli col fazzoletto di lana, lavandoli con acqua fredda, e perfino colandoci sopra la cera ardente per ricoprirne le crepature, perché non se ne accorgessero tanto facilmente le religiose, e così non la sollevassero da quella pena. Ma ciò che fa orrore è che quasi ogni sera recitava alcune preci ponendo quelle mani così scoppiate sotto le ginocchia. Ne usciva vivo sangue, e ancora se ne vedono le macchie su qualche foglio del suo breviario. Usava poi ogni diligenza perché nell’estate la propria cella fosse caldissima, e freddissima nell’inverno. Ma tutto questo era un nulla in confronto ai tormenti che usava con la più austera severità contro la sua carne verginale. Niente l’aver conservato inviolato il candore battesimale; niente l’aver fin da piccola cercato di essere tutta di Gesù fuggendo anche l’ombra della più piccola imperfezione; niente l’aver sempre mortificato con digiuni e penitenze il suo corpo; tutti i patimenti, tutte le mortificazioni, anche i più grandi sacrifici, erano stati un nulla per lei. Una croce lunga quasi un palmo, seminata da acute punte in fil di ferro, divenne lo strumento prediletto che le avrebbe scolpito nel cuore la memoria dei dolori del Signore. 
La nuda terra il luogo del suo breve riposo; finchè toltale dal Confessore tale licenza, ottenne di potersi adagiare sulle nude tavole appoggiando il capo sopra una pietra che le serviva di guanciale. Il Confessore rimaneva molte volte perplesso nell’approvarle tali penitenze, dicendo: << O, Padre! Che io non ho da fare mai nulla per il Paradiso? >>. Il Confessore allora le faceva conoscere che quelle penitenze non erano proporzionate alle sue forze; ed ella, protestandosi di essere sempre pronta all’obbedienza, subito riprendeva: << Ma con Gesù tutto si può! >>. E diceva tali parole con tanta umiltà e con tale espressione che il Confessore finiva quasi sempre col cedere e l’appagare i suoi ardenti desideri. 
Si era espressa più volte con le religiose di provar soddisfazione nel godere dell’aria aperta; pure, nell’ultimo anno di sua vita, volle privarsi perfino di andare a passeggio nell’orto. In un foglio scritto di sua mano, e che dopo la sua morte fu trovato fra gli altri manoscritti, sono segnate alcune mortificazioni delle quali aveva ottenuto licenza dalla Superiora. << Ogni sabato la disciplina, , di tenere la catenella, trentatre genuflessioni ogni giorno, cinque croci con la lingua in terra, dire cinque Pater e Ave con le mani in croce, di lasciare la frutta tre volte a settimana, e di tutte le sorta la prima volta >>. E in altro foglio chiede alla Superiora di portare la catenella tutti i giorni, almeno in quelli della Santa Comunione, e la disciplina, oltre i giorni in cui vien fatta dalla comunità e il sabato, una volta di più. In questo foglio si leggono, in tutti, quindici atti di mortificazione. Se qualche volta la Superiora le mostrava qualche difficoltà nel concederle di esercitare queste sue penitenze, ella, per indurla ad appagare il suo desiderio, era solito ripetere quel bel sentimento di San Bernardo e di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, e cioè che sotto un capo coronato di spine, flagellato e crocifisso, non sta ben un capo delicato e coronato di rose. 
<< E ciò diceva - scrive Mons. Albergotti - perché per quanto facesse, nulla le pareva di fare per Gesù, onde in supplemento gli offriva umilmente i suoi desideri e rinnovava spesso quel suo proposito di non lasciare mai occasione, né grande né piccola, di patire che le si fosse presentata e che voleva sempre accettata come offertale da lui >>. In Gesù Crocifisso meditava altresì spesso la gravezza degli altrui peccati e la durezza mostruosa dei peccatori; ed era inconsolabile per la pietà e per la compassione che ne provava. << Aveva gran pensiero - così la Madre Anna Maria di Sant’Antonio da Padova - della conversione dei peccatori e per essi orava specialmente nel tempo del carnevale. Nel sentire gli strepiti che in detti giorni si facevano per le maschere dal popolo presso il Monastero, si rifugiava in Coro a raccomandarli al Signore Dio, e lo so perché in essermi trovata seco lei allorchè s’udivano tali strepiti, ella mi avvertiva di ricordarmi di pregare per essi, affinchè non avessero offeso Dio. 
Faceva straordinarie discipline e digiuni per impetrar loro la grazia di non incorrere nell’offese di sua Divina Maestà quando era novizia, e dalla Madre Priora dopo che ebbe compito il noviziato, né so se anche dai Confessori, e posso accertatamente deporne, perché essendomi noto il suo sistema fino da che era nel noviziato, talvolta l’interrogavo nei giorni nei quali non correva la disciplina per la Comunità se avesse avuto il permesso di farla per l’accennate anime, e dandomi in risposta un sorriso, comprendevo che aveva tal licenza, onde l’invitavo a fare assieme a me detto penale esercizio, ed ella ci si adattava, con premura operò che non si fosse risaputo da veruna, additandomi le maniere più sicure per le quali fosse restato occulto, onde io ne rimanevo sorpresa >>. 
La Madre Teresa Maria della Santissima Concezione, sua con novizia, fece quest’altra deposizione: << Grande fu lo zelo e la premura che si prendeva per l’aumento della santa fede, bramando ardentemente che tutti ( se fosse stato possibile ) fossero risorti dalle tenebre dell’ignoranza, aiutando colle orazioni tutti quelli che si affaticano per condurre l’anime a Dio. “ Ricordiamoci - spesso mi diceva - che la Nostra Santa Madre a questo fine principalmente fondò i nostri monasteri; se in questo saremo trascurate, noi degenereremo totalmente dal suo spirito, né ci riguarderà come sue figlie ” >>. E nella Settimana Santa, quando la Chiesa ci rammenta la passione e la morte del Signore, Suor Teresa Margherita non si saziava di piangere la cagione di tanti patimenti del Figlio di Dio, e presentava all’Eterno Padre le pene ed il Sangue preziosissimo di Gesù per la conversione e salvezza di tanti e traviati fratelli. A tale scopo chiedeva di aumentare in quei giorni le sue penitenze, che poi fu solita esercitare col medesimo rigore ciascun venerdì dell’anno. Sappiamo infatti che negli ultimi tre giorni della Settimana Santa ella, oltre le tre discipline che si sogliono fare ogni sera durante da tutto l’Ordine, si disciplinava in privato per lo spazio di un quarto d’ora. Ed una volta che la sopraddetta Madre Teresa Maria la consigliò a moderarsi, umilmente rispose: << Se giornalmente mi vedete commettere tanti mancamenti, non è un debito che qualche volta ne sentiate fare la penitenza? >>. << Quasi ogni giorno - dice il Padre Ildefonso - si disciplinava aspramente con flagelli di funicella rinforzata e ritorta, quando era per un quarto d’ora incirca, e quando per un’intera mezz’ora o più, ed in alcuni giorni replicava la stessa flagellazione due o tre volte, trovando luogo e tempo opportuno da ciò eseguire con tutta la segretezza: cingeva strettamente per più ore, talvolta per mezza giornata intera, una catena di acute punte di ferro, o ai fianchi o altra parte del corpo, fino a fenderne talora la carne e farne scaturire vivo sangue >>. Questo amore al patire aveva fatto nascere in lei come una santa invidia perfino di quelle indisposizioni e malattie con cui le altre consorelle erano visitate da Dio; onde spesso soleva dire: << Si vede che Gesù le tratte da vere Sue Spose, dando loro parte della sua Croce; ma a me che gli sono tanta ingrata, non dà mai niente da patire, godendo perfetta salute >>. 
Stanca per le fatiche della giornata e per le lunghe veglie della notte, durante il Mattutino che le Carmelitane Scalze recitano alle ore nove della sera, si sentiva presa da grande sonnolenza, e le era impossibile recitarlo col fervore bramato. Ciò era un martirio al suo cuore. Che fa allora la fervente giovane? Essendo capitato fra le mani, non sappiamo come, due tenagline a molla fortissima, dentate tanto sottilmente da penetrare con la massima facilità nella carne, ne chiede licenza al Confessore, e se le applica alle orecchie, nascoste dal soggolo. << Era così acuta la loro pena - lasciò scritto il Padre Ildefonso - che erano capaci dopo breve spazio di tempo di fendere la carne, e davano certo un tormento tanto sensibile e penetrante, che ne potevano cagionare anche il deliquio; come io, dopo la sua morte, avendone avuta una nelle mani, la sperimentai per brevissimo intervallo sopra di me, affine di concepire la forza di tal pena >>. 
Lo studio precipuo dunque di quest’Angelo non fu che di seguire, le tracce di Gesù più da vicino che fosse possibile. Ma l’unica sua contentezza era di soffrire in silenzio, di essere umile e rimanere nascosta anche alle consorelle; poiché aveva provato che nell’oscurità possiamo trovare più facilmente Gesù. Sapeva bene che per aderire a Dio è necessario modellare la propria vita su quella di Cristo, cioè dare il massimo valore alla vita interna, sentirsi sempre più saldi nell’umiltà, nello spirito di sacrificio, nell’amore di Dio e del prossimo. E tale fu davvero la vita del Salvatore. Una vita assorta nella conversazione del Padre, plasmata sulla Sua volontà, una vita piena di umiliazioni, di sacrifici: nell’umiltà del presepio, nell’oscurità di Nazaret, sul Calvario, nel silenzio del Sepolcro, nel mistero del Suo Amore. 
Gesù è veramente una radice d’umiltà, e i fiori che vivono dal suo succo sbocciano nell’ombra. Suor Teresa Margherita, emulando l’esempio del Salvatore, dette prove di questa vita interna nascosta a Dio e della più eroica penitenza. Sono sue le memorabili parole:  << Patire e tacere per Gesù >>. 


FONTE: 
Padre Stanislao di Santa Teresa, dell’Ordine Teresiano dei Carmelitani Scalzi. Un Angelo del Carmelo, Santa Teresa Margherita Redi del Sacro Cuore di Gesù. 1934. 



LAUS  DEO

Pax et Bonum 


Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano
 

domenica 15 gennaio 2017

TERESA MARGHERITA REDI DEL SACRO CUORE DI GESU' MONACA CARMELITANA SCALZA ( TERESIANA ) SANTA *1747 +1770 - PARTE SEDICESIMA.




Teresa Margherita Redi 
del Sacro Cuore di Gesù 
 Monaca Carmelitana Scalza 
 (Teresiana) 
Santa 
 *1747 +1770 

Vivere d’amore, di puro amore, d’amore paziente; ecco il divino ideale di Suor Teresa Margherita. Il suo Dio, essa lo vedeva, lo trovava dovunque. Invitata a ricrearsi in giardino con la Comunità, talvolta, alla vista del cielo, dei fiori, diventava quasi estatica; scioglieva la voce, dapprima dolce e melodiosa a lodare il Creatore; poi, trascinata dall’impeto dello spirito, perdeva nota e metro, e il suo canto diventava così acuto, che conveniva farla cessare perché non fosse udita al di fuori. Tornata in cella, un soffio di celeste poesia le pervadeva l’anima, e prendendo motivo da ciò che più l’aveva colpita, come un fiore, un augelletto e perfino una luccioletta, scriveva versi, come questi, ad esempio, di una ingenua e puerile semplicità: 

Luccioletta che nel seno 
 Sei di fuoco, e spiri ardore 
Ancora io di te non meno 
Grande incendio ho dentro il cuore. 

Tu notturna, e tu volante 
Per lo cielo errando vai; 
Ma ‘l mio amor fra l’ombre vai; 
A Gesù non giunge mai. 

L’ombre a te non fa paura 
Perch’hai lume in te natio; 
Io non già, che in notte oscura 
Vo cercando il Nume mio.

Che se fosse in mia balìa 
Il volare come a te lice 
Sallo il Cielo e l’alma mia 
Se in amor sarei felice! 

Il giardino era il luogo delle sue riflessioni: quivi i suoi pensieri si facevano molto intensi. I fiori e le erbe, come gli augelletti e i piccoli insetti, le erano cagione di santi commovimenti e di profonde riflessioni. << Tutte queste piante - diceva - ci rammentano di amarne il Fattore… in esse Dio ci parla senza parlarci; cioè che lo amiamo >>. 
A molti sembrerà stranezza tanta semplicità, e non vedranno nella vita della giovane Carmelitana e nei suoi slanci che una esagerazione portava fino alla follia. Ma di chi è la colpa? << Miei fratelli - diceva un giorno Mons. Bougaud ( Panegirico di Santa Margherita Maria Alacoque ) - ciò che a noi impedisce di vedere il Cielo, è il guardar troppo la terra: noi siamo come chiusi e trincerati nelle cose del tempo. Rimuoviamo, rimuoviamo tutte queste vane ombre; e allora il sole dell’eterna bellezza rapirà i nostri cuori! >>. 
E quanto accadeva a Suor Teresa Margherita. Fino dai suoi più teneri anni le cose della terra si erano dileguate da lei; essa non vedeva e non conosceva altri fuor che il suo Dio; essa conservava nel cuore una traccia del divin fuoco che la consumava; e i suoi trasporti sublimi, il suo ardire, la sua passione soprannaturale, non erano che l’effetto meraviglioso della divina Carità. Sappiamo infatti che ella era ormai giunta a quel grado d’unione che è il termine della santità, perché è l’ultimo termine dell’amore. Era già in tale stato di consumazione che le oscurità del chiostro non erano più bastanti a nasconderla. I raggi che il Cuore Divino aveva piovuto sopra quest’umile verginella, mandavano già il lor riflesso nel mondo; e nelle famiglie si parlava della giovane santa del Monastero di Santa Teresa. 
<< Nel tempo che era vivente - si legge nelle deposizioni - fu stimata comunemente tanto nel Monastero che fuori una Serva di Dio, e questo fu motivo per cui si divulgò la fama della sua santità. Questa opinione di santità era particolarmente presso le persone di merito e di virtù, fra le quali è da rammentarsi il Generale Pandolfini patrizio fiorentino, il quale, avendola ricevuta in sua casa per qualche giorno prima della sua vestizione, per la stima ed opinione di santità che ne aveva, non permise mai che nel letto dove ella aveva dormito, riposasse alcuna persona >>. Ed altrove: << La fama ed opinione di questa Serva di Dio è stata in vita di un angelo di costumi e di imitatrice di San Luigi Gonzaga; e dopo la di lei morte questa fama è aumentata talmente, che viene, che viene creduta una santa >>
Il Signore esaltava così la sua Serva. Sembrava che Egli non ascoltasse la preghiera dell’umile vergine, la quale lo scongiurava istantemente a tenerla lontana da quei segni e da quelle dimostrazioni esterne, con cui Dio suol premiare anche su questa terra l’amore delle anime che hanno con Lui una stessa vita e uno stesso cuore. Oh se ella avesse potuto solo immaginare che nel mondo si parlava di lei!… Era sì grande la sua umiltà che le stesse consorelle, nel richiamarla da quei dolci trasporti a cui andava soggetta, lo facevano con qualche pretesto, perché non potesse comprendere che si erano accorte di quella sua amorosa alienazione. Ed ella, sicura che i doni di Dio fossero noti a lei sola, pregava il suo divino Sposo a tenerla sempre celata agli sguardi umani, e spesso ripeteva: << Signore, il mio segreto per me! >>. 
E questo suo segreto era quell’amore che soavemente le bruciava l’anima; o meglio, secondo il Santo Padre Giovanni della Croce, era << quell’ardore soave e dilettevole prodotto dallo Spirito Santo, per motivo dell’unione di quest’anima con Dio: ed è il grado dei perfetti che ardono in Dio e soavità ( Notte oscura, cap. XX, non grado d’amore ) >>. 
Il tratto interno ed amoroso col Signore le si era reso tanto connaturale, che le sarebbe stato impossibile distrarsene. Il Confessore stesso, così dotto e illuminato, ne tratta diffusamente nelle deposizioni e lungamente ci descrive i contrassegni, che citeremo a suo luogo, che lo persuasero e essere giunta la Santa a quel grado d’unione che è il più eminente. Di questa stretta unione di fede con Dio, sulla quale Suor Teresa Margherita fondò e lavorò sempre il suo spirituale edifizio, malgrado il fermo proposito che aveva fatto di vivere sempre nascosta agli occhi altrui, anche la Madre Anna Maria di Sant’Antonio di Padova ed altre religiose avevano molti contrassegni non equivoci. La sua compostezza esteriore, la sua vita mortificata, specialmente degli occhi e della lingua, quel devoto sembiante sereno e dimesso che la faceva apparire anche nelle cose esteriore sempre astratta ed occupata mentalmente in una profonda meditazione,  dicevano chiaro quello che realmente avveniva in lei. Tutto ciò che le rammentava l’amore di Gesù, l’esaltava. L’amore per Gesù erompeva da tutti i suoi discorsi, scintillava da tutti i suoi scritti, e nel conversare di lei con le religiose si frammentava sempre in guisa affatto spontanea. 
Da questo amore per il suo Dio nascevano le sante invenzioni, come fra poco vedremo, di uno zelo grande e ardente come la fiamma; di cui nascevano quelle lacrime che i peccati del mondo le facevano continuamente versare; di qui le fervide ed infocate preghiere al Cuore di Gesù per scongiurarlo a glorificare il suo Santo Nome e riscattare tante anime che Egli amò fino allo spargimento di tutto il suo Sangue. La sua devozione era divenuta per lei come una febbre che tutta la consumava, onde non pensava che a trovare nuovi mezzi per trarre ciò che è capace di sentire e di amare, all’amore di Gesù Cristo. 
Ma a che adoprarci in far comprendere il suo amore, quando ella stessa ci ha svelato con tanti magnifici slanci l’ardore di cui era infiammata? Basti leggere i suoi scritti specialmente poetici. L’amore la faceva poeta, come del resto è avvenuto di tanti altri santi. E però la sua poesia è agile, snella per andatura di metro come di verso, sempre felice nella scelta dell’uno e dell’altro; facilità che fa ricordare quella fluidità di poesia, d’altro genere, dello zio Francesco. 
Quale calore lì non comunica, quale fuoco non ci dà la Santa! Le sue poesie ora sono epistole spirituali al babbo o alle consorelle, ora pensieri e ricordi scritti in foglietti volanti, soprattutto una lirica che canta la confidenza nel suo Dio che è carità, o le prove del suo spirito, l’ingenuo affetto davanti al Bambino Gesù nelle veglie di Natale, le sue forti brame di unirsi al suo Bene, col patire o nella eternità. Canta senza studio, senza sforzo, però ha sempre squisite espressioni pel suo ardore, sempre sublimità di affetto. Si può citare, oltre la precedente, una come questa: 

Gesù, Dio del mio cuore, 
Viver non posso più senza il tuo amore: 
A Te grido e Te chiamo, 
Viver non posso più, se Te non amo

Nient’altro questo cuore 
Cerca, che sol per te languir d’amore: 
Tutta avvampar io bramo, 
Né viver posso più, se Te non amo. 

Allora esclama: 
  
Oh che soave fuoco  
Ch’ad altro amor non dà spazio né loco! 

Ed avverte, così disingannando, in altra: 

Non può star il cuor contento, 
Gesù mio, se te non ama; 
Ciò che brama 
Fuor di Te gli dà tormento; 
Senza Te, 
Certo non è 
Vero e stabil godimento. 

E quest’amore era così potente che ella non poteva parlarne a lungo. Per quanto fosse guardinga in nascondere il suo interno, pure, dopo, poche parole, il suo volto si illuminava come un raggio veramente sovrannaturale, a segno che rimaneva come spossata dell’impressione che ne riceveva, e le sue membra andavano allora soggette a quella prostrazione che suol essere cagionata da scosse violente. << Si accendeva talmente - dicono le memorie del Monastero - che il suo volto diveniva tutto infocato, e come di color cremisi, dal quale passava al paonazzo, e da questo molte volte al pallido e quasi cadaverico… Essendosi una volta dilungata con una religiosa in uno di tali discorsi, dopo le tre mutazioni di color nel volto cadde quasi tramortita >>. E ciò non può recare stupore, se ricordiamo che il Divino Spirito insegna che l’anima, la quale fa suo amore starsene con Dio, diventa uno spirito solo in Cristo. Il Padre Diego d. C. d. C., suo zio, in una lettera del 23 Maggio 1770 ci lasciò questa testimonianza: << Mi descrisse ( la nipote ) di maniera l’interno suo stato, che io ne rimasi altamente ammirato, conoscendo i voli che ella faceva nell’amore del suo Dio. Mi diceva di provar nel suo cuore un tal fuoco d’amor divino che sentivasi trasportata ad unirsi con Lui; ed altre somiglianti espressioni che mi pareva vedere una copia della gloriosa Santa Teresa. Mi chiedeva infine consiglio come dovesse regolarsi in così fatti trasporti >>. Quindi è facile comprendere che in questa unione così intima e forte il corpo si consuma e, se per alcun poco resiste, e solo perché l’amore lo sostiene. 
E’ in questo stato che vediamo quale anime dimenticare affatto se stesse: la gloria di Dio, la salute delle anime governano unicamente i loro pensieri, i loro sentimenti, ogni loro azione. Il loro amore sente il bisogno di diffondersi; il loro cuore diviene troppo angusto per amare; esse sentono il bisogno di trovare altri cuori simili al loro, di unirsi insieme e di comporre e di esprimere al Cuore di Dio quelle sublimi melodie che solo la fede e l’amore sanno far sorgere nel fondo dei cuori ardenti. 
Nel sentir leggere la vita della Ven. Madre Paola Maria di Gesù, genovese, della nobile famiglia Centurioni, fondatrice del Monastero delle Carmelitane Scalze di Vienna, notò come ella, a fine di vivere e morire nell’amore di Dio, aveva istituito in onore dei sette doni dello Spirito Santo una pratica religiosa detta comunemente: << Compagnia di sette sorelle >>. Tale pratica consisteva nell’offrire i meriti di ciascuna a vantaggio delle altre per impetrare il Divino Amore. Ciò bastò perché in lei si accendesse il desiderio di introdurre una tale devozione nel Monastero. Lo propose alla Madre Priora, e fece le più grandi diligenze per ottenere il permesso. Fin d’allora, cioè il 5 Agosto 1767, cominciò in Monastero questo esercizio di pietà a cui vollero associarsi illustri persone, fra le quali Mons. Francesco Maria Ginori, Vescovo di Fiesole, che spesso interveniva alla grata del Monastero trattenendosi con quelle religiose in spirituali conferenze sul Santo Amore di Dio. La cura di questa Compagnia fu affidata alla nostra Santa, e dopo la morte di lei passò alla Madre Anna Maria di Sant’Antonio da Padova. La pagella con nomi degli iscritti venne dalla Serva di Dio legata alle mani di una statuetta di Maria Santissima del Soccorso, che poi fu detta Madonna di Suor Teresa Margherita. 
Il sacrificio degli affetti più delicati era una prova della sua fedeltà e del suo amore a Dio. Tornando una volta dal parlatorio, dove era venuta a trovarla il Cavaliere suo padre, una religiosa le domanda se le fosse riuscita sensibile la partenza del genitore. Dolcemente sorridendo, trae fuori un cartellino, e , << Guardi - dice - questo cartellino il quale è una memoria del Padre Fr. Giovanni Colombino >>. Vi erano scritte queste parole di Sant’Agostino: << Meno ti ama, o Signore, chi ama con te qualche altra cosa >> ( Confess. Lib. X, cap. 29 ); e ciò fece con modo assai naturale, come mostrando di non attendere alla domanda della consorella, e senz’altro cambiò discorso. Quindi andò in Coro a pregare Gesù Sacramentato perché concedesse un felice viaggio al padre suo. 
Le religiose che la veneravano come una santa non lasciavano occasione di richiederla di schiarimenti sulla perfetta pratica del Santo Amore. Ecco una lezione cara e assennatissima che ella dava col suo solito stile, semplice ma che così bene specchia la bellezza dell’anima sua. << Per fare acquisto del Santo Amore, il miglior mezzo è quello della presenza di Dio; siccome chi ama una persona, spesso si ricorda di essa, così noi dobbiamo spesso ricordarci che Dio è sempre presente, sempre pensa a beneficarci. Ora, nell’amore, si deve rendere amore per amore; sicchè se il nostro Dio ci ha amato e ci ama tanto quantunque sia grande il nostro demerito, che dovrà la persona amata per rendergli in qualche parte la pariglia? Sforzarsi di divenire simile a Gesù nell’umiltà, dolcezza e mansuetudine, dicendo sempre nelle ripugnanze che possiamo provare: 
Voglio tutto soffrir senza lamento - 
Nell’amore del mio Dio nulla pavento >>. 
Ad una religiosa dello stesso Monastero dava in iscritto quest’altra lezione non meno assennata della prima: << Tutta la cura d’una religiosa desiderosa di conseguire la perfezione proposta dal suo stato, dev’essere di mondare il proprio cuore e di vivere unita a Dio. Per questo è necessario prima guardarsi con ogni maggior cautela dal non commettere mai mancamento alcuno avvertito e apposta, il che sarà facile ove si consideri con grande ponderazione la lume di Dio che cosa sia offendere ad occhi aperti quel Dio a cui dobbiamo tutto e per cui dobbiamo essere pronte a dare sangue e vita, tant’Egli è amabile in sé e amante di noi. Secondo, conviene pensare seriamente a togliere anche quei mancamenti che si commettono con piena avvertenza, ma per trascuraggine, per irriflessione o per abito; questi si toglieranno coll’usare una perpetua vigilante attenzione e riflessione sopra tutti i movimenti del proprio cuore; così si vedrà e da qual motivo si spinto ad operare, si conoscerà quando spuntano in esso i primi moti di passioni e, conosciuti, sarà facile il vincerli su quel primo spuntare, e impedire che si manifestino nell’esterno. Questa riflessione sopra se stessa e custodia del proprio cuore, e troppo necessaria per camminare bene e con sicurezza nella strada di Dio; se si trascura, la persona s’empie d’infiniti difetti e mali abiti, i quali non avvertiti ci accompagnano sino alla morte; se si usa bene e con costanza, è un mezzo universale ed efficacissimo per purgarsi da tutti i mancamenti, che però gliela raccomando con tutta la maggior premura come se da quella dovesse dipendere tutto il suo bene e la sua perfezione. Pensi dunque a vivere tutta raccolta in sé e in Dio; ecco in che si devono dividere tutti i pensieri e affetti di una religiosa la quale non per altro si è separata dal mondo che per attendere a sé e a Dio. Deve pertanto guardarsi bene di non dissiparsi troppo nell’esterno e fuori di sé, o coll’abbandonarsi tutta e con troppa sollecitudine alle occupazione esteriori, a cui convien solo imprestarsi riserbando il meglio a sé e a Dio, cioè la mente e il cuore, o col trattenersi in pensieri e riflessioni inutili, e col dar troppo pascolo ai propri sentimenti lasciandosi trasportare a discorsi o curiosità inutili che sono poi semi d’infinite distrazioni; usando questo raccoglimento tratterà e parlerà volentieri con Dio e comincerà a vivere in Gesù e di Gesù, vestendosi a poco a poco del suo Spirito, che è Spirito di soggezione, di semplice e cieca obbedienza, d’umiltà, di mansuetudine e di carità >>. 
Ella che si faceva maestra alle altra con tali lezioni, doveva dunque conoscere perfettamente l’arte di stare sempre presente a Dio e di imitare le virtù del Salvatore. E che fosse così ce lo han dimostrato quel raccoglimento, quei suoi slanci, quell’incendio divino cui ardeva il suo cuore. Ella non respirava che per Gesù; i suoi detti, le sue lacrime, i suoi stessi rapimenti non parlavano a quelle religiose che di contemplazione, di lode, di amore. 
Chi più fervorosa ed intenta di lei ad imitare Gesù Crocifisso? << Ricordati - aveva scritto su un cartellino - che nell’entrare che facesti religione, pretendesti di esprimere in te la vita del Crocifisso. Perciò devi figurarti che il calvario sia il chiostro, tua croce la regolare osservanza, tuoi chiodi i tre voti, il tuo carnefice la mortificazione >>. E in altra carta scritta forse per la rinnovazione dei voti nei primi tempi, si legge: << Signor mio Gesù Cristo, propongo per amor Vostro e della Vostra Santissima Madre di esercitarmi nella mansuetudine, umiltà e obbedienza. Così mi conceda la divina Maestà Vostra >>. Ed essa infatti era divenuta sempre più umile, e sappiamo già in qual grado; era poi benigna verso le consorelle come il più dolce dei padri, affettuosa come la più tenera delle madri, obbediente con tutti, come una serva pronta e sempre disposta. Il fervore del suo spirito era grande; unico suo desiderio era di essere crocifissa a tutto, e vivere per Gesù. Portava come impressa in sé l’immagine del Divin Cuore che era tutta la sua vita; e perciò era generosa a soffrire, perché il Cuore di Gesù è stato sempre generoso con noi. Onde, ricordando a se stessa l’umiltà di spirito e di cuore di cui tanti esempi ci ha lasciati Gesù, diceva: << Se bramiamo trovare Dio, la strada sicura è questa umiltà di cuore e semplicità di spirito; ricordandoci che non otterremo se non combattendo; ma coraggio, non ci mancherà né la grazia, né il soccorso del Cuore di Dio che ci vuol santi: non perdiamo tempo, che ogni momento è prezioso! >>. Oppure: << Se vogliamo esser sante, operiamo e tolleriamo in silenzio, tenendo sempre le nostre anime i pace, né ci conturbi qualunque disposizione in cui Iddio ci ponga, ma lasciamo pure fare a Lui, unendoci alle sue sante intenzioni, ed in questa maniera Lo ameremo con purità d’amore >>. 
Nel leggere queste parole del Salvatore: << Se alcuno mi ama, conserva la mia parola; e il Padre mio lo ama e verremo a lui e rimarremo presso di Lui >>, usciva fuori di sé, pensando quando fosse grande la degnazione di Dio nell’aver fatto tal patto d’amore con noi misere creature. Sulle parole poi di San Giovanni: << Dio è amore, e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio in lui >>, come rapita a se stessa, disse accenti sublimi al suo Confessore, rilevando che questa carità che noi partecipiamo non è altro che l’amore con cui Dio ama se stesso dall’eternità, e lo Spirito stesso di Dio, cioè la vita e quasi l’alito suo, che è lo Spirito Santo ; e perciò ripeteva che chi è nella carità di Dio e vive nella vita divina. << Fra loro - diceva - è una sola vita, una sola carità, un Dio solo; ma in Dio tutto ciò per essenza, nella creatura per partecipazione e per grazia, e così è vero che tutto è comune fra gli amanti >>. 
Un giorno il Padre Idelfonso, quasi a scrutar meglio la profondità di quell’anima serafica, entrò nuovamente a parlare della vita d’amore. Appena la Santa sentì toccare questo argomento, dimenticando il suo consueto ritegno, entrò a piene vele nel discorso, e disse con tanti sublimi che il buon Padre ne restò ammirato. Altra voce diceva: << Lo specchio in cui dobbiamo mirare per giungere alla divina unione, è Gesù Cristo; perché nessuno la può ottenere se non per mezzo e per i meriti di Gesù Crocifisso >>. Quindi manifestò che le facevano sempre grande impressione quelle parole del Santo Vangelo: << Nessuno viene al Padre, se non per mezzo mio >>. << In questo Padre e Dio - diceva - vi è ogni cosa, perché << Dio è amore >>, ed Egli per effetto d’amore ha fatto il tutto e il principio di tutte le cose, e questo amore è lo stesso Dio. Quindi per acquistare questo Dio, nel quale vi è ogni cosa, e perciò ogni bene, niuna fatica ci deve sembrar dura; nè si deve tornare indietro per le difficoltà che si incontrano, ma abbracciare l’amarezza e ogni sorta d croce con prontezza. Con questi mezzi, che sono appunto quelli di Gesù Cristo, non è difficile acquistare il vero dio e di stare in carità e camminare nell’amore >>. 
Questi ed altri simili concetti che molte volte, anche senza accorgersene, le uscivano di bocca tradendo il suo umile contegno silenzio e di nascondimento, li aveva appresi certamente alla scuola di quel Divino Spirito che sì bene la conduceva ad agire, non più umanamente secondo natura, ma divinamente e secondo la grazia. Una domenica dopo la Pentecoste del 1767, quell’anno 24 Giugno, avendo udito leggere in Coro al Capitolo di Terza le parole di San Giovanni: << Deus charitas est >> fu presa da tale vivissimo ardore che restò fuori di sé per un breve tempo. Parve che da quel giorno conservasse nel cuore, come la Santa Madre Teresa, una traccia di quel divin Fuoco, o meglio una ferita che nessuno conobbe ma che a poco a poco la consumò e le trasse a morte. Anzi, dopo questo fatto, per più giorni rimase quasi astratta e fuori di sé ripetendo sempre quelle parole: << Deus charitas est >>: e dal modo con cui la proferiva, le religiose videro che erano sempre accompagnate da un accendimento d’amore di Dio straordinario. ( Proc. Can. - Dep. Del Padre Idelfonso. - Per questo fatto, intorno ad alcune sue immagini si leggono le parole : Deus Charitas est ). 
Da quel giorno i sacrifici più generosi e più eroici divennero come una necessità al suo amore; essa sentiva il bisogno di rendere a Dio amore per amore, vita per vita, per testimoniargli tutta la sua riconoscenza. Il desiderio del martirio si fece sentire ancora più vivo nel suo cuore: in mancanza di carnefici che la torturassero, seppe trovare ordigni ancora più ingegnosi di quelli delle officine della persecuzione. Le penitenze e le macerazioni che ella s’impose fanno rabbrividire la nostra fiacca natura. Il suo amore divenne così ardente che giunse perfino a bramare il tormento che più purifica. La sacra scienza delle prove, degli abbandoni e delle croci, non fu più per lei uno sconosciuto mistero. L’assioma del puro amore, celestiale invenzione della Santa Madre Teresa, divenne perfettamente la leggedei suoi brevi giorni di vita, comprendendo ella sempre più le sante deliziose pene di un amore Crocifisso. 


FONTE: 
Padre Stanislao di Santa Teresa, dell’Ordine Teresiano dei Carmelitani Scalzi. Un Angelo del Carmelo, Santa Teresa Margherita Redi del Sacro Cuore di Gesù. 1934. 


LAUS  DEO

Pax et Bonum


Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano