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lunedì 29 febbraio 2016

MODELLO DI NOVIZIO FRA CANDIDO MARIA DA MAZZARINO CAPPUCCINO - PARTE QUARTA.




VII 
A Calascibetta 

I giovani più volenterosi solevano essere ammessi al noviziato dopo percorsa la quarta ginnasiale, riserbando la quinta all’anno seguente. Totò Scebba terminò la quarta in Luglio 1934, e non avendo ancora raggiunto i 15 anni richiesti per l’ammissione, dovette attendere fino a Dicembre, quando gli fu concesso di passare un mese in famiglia a Mazzarino, per poi di là recarsi direttamente a Calascibetta, nel noviziato. 
Un mese in famiglia, dopo due anni che n’era stato assente, gli riuscì assai gradito. Nondimeno i suoi discorsi in quel tempo e le sue aspirazioni convergevano costantemente al compimento del suo sogno di vestire le Serafiche Lane del Padre San Francesco, e poi divenire sacerdote. Né finiva di parlare della bellezza del vocazione religiosa. Scrive la madre: << Oh! Quante cose in questo mese raccontava stando in famiglia! Era inesauribile nel parlare della vocazione religiosa. Parlava con tanto amore di volere essere Cappuccino e desiderava di presto partire per il noviziato >>. Questo desiderio gli si acuì maggiormente per la prolungata attesa a cui fu costretto, perché il Provinciale tardò a comunicargli la data di partenza. Egli però temperava la sua nostalgia con la frequenza del convento, dove ogni giorno andava a servire la Messa, a farvi la Comunione e riprendervi contatto coi religiosi, coi quali provava sempre una gioia viva. 
Finalmente gli venne assegnato il 22 Gennaio ( 1935 ) per la partenza. Ma quel giorno turbinava tanta neve, che il viaggio fu rimandato. Si attese ancora due giorni, che per lui furono tortura, rimanendo assai dispiaciuto. Intanto il Padre Gaetano, forse ispirato dalla visione di quel candido velo di cielo di cui si era coperto la terra, gli disse che alla vestizione avrebbe dovuto assumere il nome di Fra Candido. Egli ne fu lietissimo, e diceva: 
- Spero che l’anima mia sia per essere candida come questa neve. -  
Il tempo s’abbonacciò, e il 23 fu deliberata la partenza per l’indomani, in cui egli egli si mise assai festante in automobile insieme coi genitori, un fratellino e Padre Gaetano, da essi forzato ad accompagnarli, dicendogli la madre: 
- Voi Padre, avete fatto tanto finora; è giusto che compiate l’opera. Totò lo desidera molto.
Lungo il viaggio, sotto la montagna di Enna, a causa della neve ghiacciata, l’auto slittò, battendo contro un parapetto. Fortunatamente non si ebbero conseguenze sinistre, all’infuori d’un po’ di paura per tutti e di fatica per rimettere a posto la macchina. << Arrivati a Calascibetta - scrive Padre Gaetano - Totò venne presentato al Padre Maestro, che lo condusse al noviziato. I genitori erano addolorati di dover lasciare il figliuolo, e nel separarsi piansero abbastanza. Io li pregai - specialmente la madre - di desistere, per non impressionare il giovinetto. Se Totò abbia pianto non ricordo >>. 
Totò non pianse. 
I suoi genitori scrivono: << Non profferì parola. Si licenziò in silenzio, mesto e paziente. Il dolore lo sentiva, ma non lo fece trasparire. Soffriva nel cuore. Non pianse, perché non era sua abitudine e non piangeva mai; solo al separarci volle la nostra benedizione e quella di Padre Gaetano >>. 
Prima che noi tocchiamo l’argomento doloroso della forte tentazione subita da Totò a Calascibetta, conviene che diciamo qualche parola del luogo in cui venne a trovarsi. 
Invece della gioia che si riprometteva in quella fausta occasione, ebbe egli a sperimentare amarezza ed un abbattimento che mai aveva provato. 
Calascibetta - cittadina di appena otto mila abitanti - ha una posizione incantevole, su una montagna a picco, che si erge nel centro della Sicilia, dirimpetto a Enna, dalle quale è separata solo da un profondo avvallamento. Il convento dei Cappuccini, fuori dall’abitato, occupa l’apice di una collinetta isolata, verso occidente con vasti orizzonti da tutti i lati. I corridoi sono ampi e le finestre alte, le pareti pulite e rimodernate, le stanzette piccole, ma linde e simpatiche. Allo stesso modo l’unita chiesa, bianca, semplice, con volta elevata. Anch’essa si presenta gaia e fa eccellente impressione su tutti. 
Ma allora si era d’inverno, e per giunta in un periodo di eccezionale rigore. Se a Mazzarino - che è più basso - aveva già nevicato abbondantemente, a Calascibetta - assai più elevata - la neve era più alta e dormiva tranquilla. Inoltre la nebbia in quel pomeriggio avvolgeva ogni cosa, rendendo più pesante l’atmosfera e tetra la giornata. Invece quando vi brilla il sole, Calascibetta è un incanto. In noviziato occupa il più lungo corridoio del conventino, con numerose stanze a mezzogiorno. Il Maestro Padre Simplicio ( lo chiameremo così ) soleva assegnare i nuovi venuti ( com’è naturale ) le migliori stanzette, usando con essi più riguardi e più carezze, affinchè avessero potuto ambientarsi più facilmente e sentire d’essere amati. 
Ordinariamente i giovani vanno al noviziato sui 15 anni, di rado sui 16, 17 o più. Or siccome durante il ginnasio, nel seminario di Gela, stanno sempre a contatto coi frati, vi hanno già una certa familiarità e ne conoscono l’andamento e la vita, per cui accendono lieti e festanti al noviziato, dove in genere non hanno a subirvi impressioni sinistre né sgomento di situazioni differenti. 
Senza dubbio ivi si dà ad una vita più mortificata e raccolta e si è soggetti a prove differenti. Ma s’intende che ciò vien fatto con modi adatti e benevoli, conforme all’età dei ragazzi, in maniera dolce e progressiva, preparandone prima l’animo e la volontà. Anzi nei primi giorni e nel primo mese si lascia che il giovane si orienti sul contegno degli altri e ne subisca piuttosto l’esempio anziché farlo oggetto di richiami, e molto meno di rampogne. 
Si può aggiungere inoltre ch’essi fin dal seminario sanno come la vita di noviziato sia più stretta e disciplinata e come si sia assoggettati a prove e mortificazioni varie. In tal modo quando vi son dentro, lungi dal trovarla pesante, vi si ambientano a meraviglia e vi stanno generalmente contenti. 
Seguendo le vicende della vita interiore ed esteriore di Fra Candido, non mancheremo in seguito d’inquadrarle fedelmente nell’ambiente in cui essa si svolge, affinchè il lettore possa meglio comprenderne il contenuto a gustare la sostanza. 
Veniamo ora alla crisi imprevista e repentina del nostro Totò Scebba, il quale ebbe ad affrontare una lotta penosa, proprio alla soglia di quel luogo, ch’egli credeva - e lo divenne infatti - un paradiso. 


VIII 
Tentazione e vestizione 

Totò allorchè si separò dai suoi non pianse, ma sembra che le lacrime dei genitori lo abbiano profondamente scosso. Per fortuna tratteggiò egli stesso questo doloroso e breve periodo in alcune paginette del suo Diario che comincia con questa scena: << Avevo sognato - egli scrive - e in mille modi vagheggiato questo giorno della partenza da Mazzarino, e ora non era più sogno, poiché mi trovavo già in viaggio. Calascibetta era stata la meta dei sospiri. Ma ciò che avevo sognato con gioia, si compiva ora con grande dolore >>. E soggiunge: << Mai in vita mia avevo sentito sì forte amore e attaccamento ai miei genitori e parenti, come l’intesi nel separarmi. Non piangevo, ma ero rattristato grandemente >>.
S’iniziava una crisi, fino allora sconosciuta al suo spirito. 
Infatti più in là soggiunge: << Mi separai, ma in quell’ultimo abbraccio il cuore mi si spezzò dal dolore. Nonostante ciò mi separai >>. 
Evidentemente il diavolo, che provava tanta gelosia di quest’angelico fanciullo, metteva in opera le sue arti e lo suggestionava, e non avendolo potuto rovinare fisicamente quando fece slittare l’auto durante il viaggio, tentava ora di abbatterne lo spirito al principio del suo noviziato. Il ragazzo stesso vi riconobbe le sue arti maligne. 
I novizi ch’egli trovò a Calascibetta erano stati suoi compagni a Gela, e solo da pochi mesi l’avevano preceduto là. Gli fecero la più lieta accoglienza, molto più che tutti gli avevano una stima particolare. Egli all’esterno non faceva trasparire i sentimenti di tristezza che l’opprimevano, ma in realtà si sentiva addirittura schiacciare. << All’esterno mi dimostravo lieto - egli scrive nel Diario - ma nell’interno era ben altra cosa. Quando mi trovavo solo piangevo, e facevo non pochi disegni per uscire dal noviziato, perché non volevo stare qui >>. 
Ma il Signore non lo lasciò solo a lottare il suo piccolo servo e gl’ispirò di chiedere consiglio, molto più che egli - anche nuotando nella tristezza - non lasciava di pregare. 
E qui fu la sua salvezza. 
<< Un pensiero mi balenò - narra egli stesso - di cercare un consiglio, un aiuto, un conforto. Da chi? Dal Padre Maestro. Vi andai timido e lento, e gli esposi tutto. Egli alle mie prime parole rise, e ora me rendo conto. Con dolci parole mi fece rilevare l’errore in cui ero caduto, essendo tutta opera del demonio, il quale vedendo sfuggirsi un’anima, voleva farla sua. Mi raccomandò la preghiera fervida e costante, e mi disse: Quando viene il diavolo, rompigli le corna con la preghiera, e scapperà senza ritorno, per timore che gli venga rotta anche la testa >>. 
 In questa narrazione Totò è proprio preciso, anche nelle parole ( ci assicura il Maestro Padre Simplicio ), poiché si presentò davvero timido e lento, com’era del resto naturale in quella situazione. 
Ad ogni modo, dopo aver parlato col Padre Maestro, l’animo suo si rasserenò, ma solo per poco, com’egli stesso soggiunge: << Quelle dolci convincenti parole del Padre Maestro mi diedero pace, dissipando le tenebre dell’anima mia. Durò poco però la tregua, perché nel giorno stesso tornarono quei pensieri con grande mio dispiacere, non ostante che mettersi in pratica le sue raccomandazioni >>. 
Nell’insieme, poiché egli si manteneva fedele nel pregare, si fortificava nello spirito, per quanto la lotta non cessasse. Nei momenti in cui l’oppressione diveniva forte, tornava fiducioso da quello. << Andai dal Padre Maestro - egli scrive - per qualche conforto, ed egli, dopo avermi ripetuto il discorso del giorno precedente, mi disse che il 2 Febbraio mi avrebbe vestito novizio, e allora la tentazione si sarebbe allontanata definitivamente, perché San Francesco col cingolo mi avrebbe stretto a sé e non avrebbe permesso che il diavolo disturbasse un suo figliolo. Indovinando inoltre che il cattivo tempo contribuiva a rendermi triste mi assicurò che in seguito sarei stato contento, poiché tornando il bel tempo, avremmo potuto fare belle passeggiate. Mi parlò anche della grande dignità del sacerdozio, stato a cui aspiravo >>. 
Padre Simplicio ignorava quella sua arcana aspirazione al sacerdozio, che stava come base della sua vocazione e della vita stessa; ma con l’avergliene parlato, toccò evidentemente la corda più sensibile del suo cuore, e la tristezza si dissipò. Queste fluttuazioni e tentazioni durarono fino al 1° Febbraio, vigilia della sua vestizione religiosa. In certi momenti l’avvolgeva una tenebra così fitta e triste, da farlo decidere ad andarsene. Anzi aveva stabilito di scriverne a casa sua: << In quei giorni avevo stabilito - dice lui stesso - di scrivere ai miei genitori, per informarli del mio stato, affinchè mio padre fosse venuto a rilevarmi, perché io non volevo stare più in noviziato >>. 
Trionfava di questi sentimenti allorchè, facendo uno sforzo, s’imponeva al tumulto dei pensieri e si metteva a pregare: << Ricorsi alla preghiera - dice egli - e quei pensieri si chetarono un po’. Oh! com’è grande la potenza della preghiera! >>. E poi soggiunge: << Oh scaltrezza del demonio e sciocchezza mia!… Ero sciocco perché, invece di pregare, davo ascolto a quei pensieri. La scaltrezza del demonio non può nulla contro chi prega, perché ha Dio come scudo >>. 
Pregava lui, pregava il Maestro, si pregava anche a Mazzarino, dove Padre Simplicio ne aveva scritto a Padre Gaetano. 
Il 1° Febbraio la serenità fu completa e il trionfo definitivo. L’indomani Totò doveva indossare per sempre l’Abito Francescano, oggetto di tanti suoi ansiosi desideri. Finalmente era per divenire figlio del Patriarca San Francesco ed era per avviarsi sul serio verso il sacerdozio. << Oh che gioia! - esclama egli, notando al 1° Febbraio - com’è buono il Signore e quanti favori mi fa! Domani Gesù mi farà indossare l’Abito del Serafino d’Assisi. Gesù m’ha travagliato per un po’ di giorni con quei tristi pensieri, ma ora mi fa gustare la gioia. Come comprendo adesso che tutto è stato opera del demonio! >>. 
Allorchè riprendeva la serenità dopo la lotta, dal suo cuore erompeva subito il palpito della gratitudine e dell’amore: << Gesù m’ha tolto dal mondo - egli dice - perché mi ama e vuole usarmi misericordia. Quanti giovani sono rimasti nel secolo, che forse avrebbero servito meglio di me Dio, eppure egli ha scelto me, perche mi vuole santo. Che gran dono la vocazione! >>. 
Gusta egli fin d’ora il grande privilegio della vocazione religiosa, e fa di tutto per corrispondervi bene: << Oggi non vedo l’ora che spunti domani, gran giorno invero per me! >>. Il 1° Febbraio era venerdì, e avendo egli già deciso d’iniziare la pratica dei Primi Nove Venerdì, volle accudirvi con particolare diligenza: << Questa mattina - egli nota - ho fatto la Comunione un po’ fervorosa, in preparazione al gran giorno di domani e per consolare il Sacro Cuore di Gesù per gli oltraggi che si fanno da tanti peccatori >>. Non poteva al certo premettersi preparazione migliore di quella sua, né provare sentimenti più nobili. 
E l’indomani venne. 
Anche il tempo era sereno, e il sole sembrava prender parte alla festa che si celebrava nel conventino di Calascibetta, ma soprattutto nel cuore di Totò. E poi, era anche la Festa della Purificazione di Maria, ciò che non poteva sfuggire alla pietà del giovinetto. << Quant’è buona la Madonna! - esclama egli - Ella vuole ch’io indossi l’Abito di San Francesco in un giorno dedicato a Lei >>. La sua vestizione venne dunque a compirsi sotto buoni auspici. 
<< Ho cercato di prepararmi - dice egli - con santi ardori e desideri di ricevere l’Abito. Sembrava non dovesse venir mai questo giorno, e ora invece mi trovavo ai piedi dell’altare. Recitate le preghiere prescritte e cantato il Veni, Creator Spiritus, il Padre Maestro m’impose l’Abito e il Cingolo, e poi pronunziate alcune parole di esortazione, insieme coi compagni mi fece tornare in noviziato >>. 
Il nuovo nome di Fra Candido, impostogli al momento della vestizione, nel giorno della Madonna, per lui fu un simbolo. Nel Diario vi traccia intorno un programma, che davvero è un’epopea per un ragazzo: << Il mio nuovo nome di Fra Candido - scrive egli - cioè bianchissimo, lo terrò sempre ben caro, perché mi fu dato la prima volta in un giorno caro alla Vergine, a cui piace il candore e la purità. Mi sforzerò di essere candido non di nome, ma di fatto, interamente, per omaggio a Maria, giglio purissimo >>. 
Esternamente era già Cappuccino, figlio vero di San Francesco. 
Lo diverrà anche all’interno? 
Ecco cosa promette e stabilisce: << O Gesù, ora che sono religioso esternamente, propongo di esserlo anche internamente. E questo che importa di più, perché non è l’abito che fa il frate, bensì la santità di vita… Gesù, tu sai quanto poco possa fidarmi di questo proposito. Avvaloralo tu, e dammi forza di non venir meno >>. 
La gioia da lui provata in questo giorno fu addirittura senza ombre, e quando il Padre Maestro gl’impose l’Abito, a lui sembrò << che la chiesetta si fosse trasformata in paradiso >>, per cui << piangeva internamente di tenerezza >>. Né dopo la funzione potè astenersi dall’andare a manifestare la sua felicità al Padre Maestro, e nel suo Diario conchiude: << Dunque era vero ciò ch’egli m’aveva detto prima, e cioè che sarei divenuto contento legandomi a San Francesco >>. 
La tentazione non tornò più, e la grazia della vocazione proseguì a brillare al suo sguardo con fulgori divini, quale sempre egli era apparsa in passato. Vinto il diavolo rimase contento e godette nella sua pienezza la serenità e la gioia. 
Dopo la vestizione scrisse ai suoi in Mazzarino: << Ho fatto gli Esercizi Spirituali, e finalmente dopo tanto aspettare, ieri, 2 Febbraio, giorno della Purificazione di Maria, con molta gioia indossai l’Abito del Padre Serafico San Francesco. Questa piccola chiesa mi sembrò un paradiso. Il mio cuore palpitava di gioia indicibile e ineffabile. Come colui che ha trovato un gran tesoro piange di gioia, così io piangevo per aver trovato Dio nella pace della vita religiosa >>. 
Nel suo Diario, né in tutte le relazioni dei compagni esistono più traccie di tentazioni intorno alla vocazione o altro. Invece si hanno molte testimonianze della sua letizia e della gioia. In Novembre, cioè dopo otto mesi ch’era già nel noviziato, scriveva ai suoi: << Bene in salute, e molto contento dello stato in cui mi trovo >>. 
E più in là aggiungeva ( 3 Novembre ), esprimendo la gioia di cui si sentiva inondare: << Com’è sublime lo stato religioso! Nella religione si ama, si serve, si loda il Signore. E come non stare contenti al servizio d’un sì grande padrone? >>. 
Se ne apriva anche coi compagni, e sembrava che nessuno fosse lieto come lui: << Ringraziava il Signore - dice uno - del dono della vocazione religiosa, e gioiva dello stato in cui si trovava >>. (1). 
Il 3 Ottobre 1935, vigilia della Festa di San Francesco, fa questa preghiera: 
<< O Serafico mio Padre San Francesco, 
una sola cosa ti domando nella tua Festa, 
che non venga mai meno 
alla vocazione che mi hai concesso, 
affinchè imitandoti in terra, 
possa goserti in cielo >> (2). 

1) Padre Venanzio da Mazzarino. 
2) Dal Diario. 


FONTE: 
PADRE SAMUELE CULTRERA - MODELLO DI NOVIZIO FRA CANDIDO MARIA DA MAZZARINO CAPPUCCINO SCUOLA SALESIANA DEL LIBRO ROMA 1944 - VIA TUSCOLANA 361 


LAUS  DEO

Pax et Bonum


Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano 

giovedì 18 febbraio 2016

MODELLO DI NOVIZIO FRA CANDIDO MARIA DA MAZZARINO - CAPPUCCINO - PARTE TERZA.



Vocazione e contrasti 


Atteso il suo carattere mite e pacifico, sembrerebbe che non avesse dovuto mirare a mete alte, né sognare ideali ardimentosi, propri degli entusiasti e dei coraggiosi. Uno dei suoi compagni scrisse: << Fra candido era molto pratico e di buon senso, né viveva di quelli ideali si cui si illudono i giovani >> (1). 
Certo, sogni chimerici non ebbe, ma un ideale gli sorrise di sicuro, sempre: il sacerdozio
Era affiorato in lui quasi con la ragione e con quella tendenza istintiva del divino, che manifestava nei modi più in là illustrati. Né fu ideale d’infanzia, impreciso e leggero, che con l’età si dilegua. Questo benedetto figliuolo, già arricchito da Dio d’un carattere privilegiato e di un’indole molto adatta alla vita sacerdotale, ebbe tra l’altro la grazia singolare di non vedere mai oscurarsi questa luce nella mente, di modo che col trascorrere degli anni sentiva accendersene più la fiamma nel cuore. L’attrazione del Divino in lui era costante, era potente. Se non come spiegare quel fascino che la vita spirituale esercitava su di lui, e quella sete di letture che mai s’estingueva? 
Il pregare, il leggere, l’occuparsi in ciò che riguardava Dio e l’anima era per lui una necessità. La si trovava sempre bene. S’immergeva in quell’atmosfera, e cercava di non uscirne mai. Perché
L’ape torna al fiore, perché vi si trova il miele. Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei. Là è il tuo cuore, dov’è il tuo tesoro. 
Visse sempre con l’idea d’essere sacerdote, non alimentò altra aspirazione, e con frequenza la manifestava. 
Trovò però un ostacolo. 
Il padre, che viveva del suo lavoro, non la pensava come lui, e meditava di averlo come aiuto in campagna. Era il primogenito, si dimostrava tanto docile, rispettoso ed ubbidiente. Cercò quindi di affezionarlo ai campi, e ve lo conduceva spesso. Anche la mamma aveva piacere che vi andasse di tanto in tanto, perché temeva della sua salute nel vederlo sempre immerso nelle sue preghiere e nelle sue letture. Ma ogni volta che il fanciullo doveva accontentarli, prima di partire si rimpinzava le tasche di libri, e nei momenti liberi, rincantucciandosi di qua e di la, o mettendosi sotto gli alberi, leggeva, pregava, si tuffava nei suoi sogni di cielo e di eternità, s’abbandonava alle ispirazioni così nobili del suo cuoricino e della sua anima serafica. 
Il padre ne rimaneva stupito, e talora interdetto. - Totò - gli diceva - ma qui sei venuto per lavorare e distrarti: non per leggere. Aiutami quindi in qualche cosa!
Il figliuolo, da quel serafico che era, chiudendo il libro e rimettendosi in tasca e correva, dove quello l’inviava. Ma poi, appena libero, di nuovo s’ingolfava in quelle pagine, delle quali sembrava si sprigionassero armonie di celesti concerti, da ricrearne il cuore e deliziarne la mente. 
Che farci? Era una fame misteriosa che gli faceva cercare il nutrimento dove solo lo poteva trovarlo, cioè nell’atmosfera di celesti aspirazioni di cui viveva. 
Voleva essere sacerdote. Per lui era certezza, e i libri gli erano indispensabili, trovandovi quella luce e quel conforto, che altrove per lui non esisteva. 
Nel 1931 aveva compiuto dieci anni e terminato le scuole elementari. Il professore, sacerdote Cannarozzo - che ne aveva << ammirato l’indole serafica e l’ottima intelligenza >> - avrebbe desiderato che proseguisse a studiare. Ma visto che il padre mirava ad averlo al lavoro, ne smise il pensiero. 
La madre invece e la zia Agnese, ammirandone l’angelica condotta e i vivi desideri di consacrarsi a Dio, pensarono di fargli frequentare il convento dei Cappuccini, in attesa che intanto fosse schiarito l’orizzonte e aperta una via. Non era proprio il Signore che faceva sentire sì forte nel cuore del figliuolo quella vocazione e gli dava sì grande attrattiva per il sacerdozio? E non avrebbe dunque pensato a soddisfarlo? 
Non osando parlarne al padre, le due donne, insieme con Totò vanno a consigliarsi con Padre Gaetano da Mazzarino, già Provinciale, il quale ricevette buona impressione del ragazzo, e promise d’interessarsene; anzi volle dare al giovanetto una vita del Servo di Dio Fra Giuseppe Maria da Palermo (2), dicendogli: 
- Leggila, e si santo come lui!
Ma non si limitò a questo soltanto. << Non fermandomi alle sole assicurazioni della madre - scrive Padre Gaetano - volli interpellare il professore sacerdote Cannarozzo, già suo insegnante di quinta elementare. Mi rispose: << “ Lo Scebba è di un’indole serafica e di ottima intelligenza. Ero disposto ad aiutarlo per continuare gli studi, ma visto che suo padre non si presentava, perché contrario, me ne disinteressai ” >>. 
<< Il padre - segue Padre Gaetano - pensava di farne un contadinotto, per aiuto nei campi e per portare il peso della famiglia. Lo mandai a chiamare anch’io; ma non ottenni l’intento >>. 
La madre nondimeno poté riuscire a fargli frequentare il convento dei Cappuccini, dove tutte le mattine - quando poteva - serviva la messa e faceva la Comunione, godendo molto di poter stare vicino ai religiosi. Allorché s’avvicinò Natale, il guardiano, attese le funzioni speciali che avevano luogo nella chiesa, lo invitò a rimanere in convento per quei giorni anche di notte. Totò corse subito a casa, e pazzo di gioia comunicò la sua fortuna alla mamma, chiedendo un paio di lenzuola per il lettuccio che gli si preparava. 
In una relazione intorno a quel tempo e scritto: << Stando in convento Totò era tanto premuroso nel servire la Messa destava ammirazione. Con modestia di angioletto andava da una parte all’altra dell’altare, accendeva e spegneva le candele, sistemava le tabelle e quanto vi era intorno. Vi stava contento, e quando veniva in casa, diceva tante belle espressioni sul convento e sui religiosi, raccontando quanto gli volevano bene >>.
Ma ciò non poteva bastare. Occorreva lo studio, e la madre, non sapendo come risolvere il problema, né avendo i mezzi d’inviarlo in seminario, fece pregare il sacerdote Quattrocchi, suo cugino, per un po’ di scuola, in attesa che il Signore avesse provveduto diversamente. Andò a presentarglielo propriamente uno zio, Vincenzo Scebba, il quale s’interessava pure di lui. Il sacerdote Quattrocchi, esaminatolo, ne fu contento. << Rimasi soddisfatto e meravigliato - scrive egli stesso - al sentire che già conosceva le quattro coniugazioni dei verbi attivi con gli ausiliari, per cui esclamai: 
<< - Bravo!… Se sarai studioso, vinceremo tuo padre. - >>. Il fanciullo tornò a casa rinfrancato, e in seguito, per quanto quel sacerdote fosse già abbastanza occupato, poté riceverne qualche ora di scuola, e quello trovò in lui una corrispondenza perfetta di docilità e di intelligenza. << Lo ricordo ancora - scrive il Quattrocchi - calmo, sereno, sempre presente a se stesso, dagli occhi neri e vivaci, dal portamento umile, rispettoso, con quell’ingenuità dai cui traspariva la sua anima candida… Non ebbi mai a mortificarlo, perché nel suo diportamento era inappuntabile, e mostrava una maturità precoce >>. 
Totò in quella casa, non solo riuscì a guadagnarsi l’affetto del maestro, ma anche dei familiari, che rimanevano edificati dalla paziente attesa di lui allorché il Quattrocchi era occupato. 
<< Parlava poco - dice il medesimo - ma se interrogato, rispondeva con precisione. Amava lo studio e vi si dedicava con trasporto. Di memoria robusta e tenace, era facile ad apprendere brani di poesia, che ripeteva con fedeltà. Ogni volta che si concedava, chiedeva sempre la benedizione. Del resto, anche i maestri delle scuole elementari ne avevano tessuto elogi. Il professore Vincenzo Arena Guerrieri, che in uno scritto lo chiama << angelico alunno >>, dice tra l’altro: << Questo docile e affettuoso bambino manifestò subito le sue non comuni doti d’ingegno e di cuore. Pronto nell’apprendere, tenace nell’operare, non conobbe mai l’orgoglio, fu sempre umile coi compagni, che cercava di proteggere e di aiutare >>. 
Frequentò la scuola di Quattrocchi per circa due anni. Ma questa soluzione nera stata provvisoria. La madre, gli zii e Padre Gaetano stesso tendevano a quella definitiva. 
Il Quattrocchi da parte sua, col consenso dei genitori affine di dirimere la difficoltà finanziarie, tentò di farlo ammettere gratuitamente presso i Padri Gesuiti di Noto. E c’era riuscito, poiché dal Padre Mina capelli - allora rettore del Collegio - si ebbe il 22 Agosto 1932 questa risposta: << Che dirle del giovinetto Scebba? La buona volontà d’ammetterlo in questa Scuola Apostolica certo non manca. Trattandosi di giovinetto veramente buono, sano, intelligente e deciso a seguire la vocazione religiosa della nostra compagnia, siamo disposti a sobbarcarci ai non pochi e gravi sacrifici che si richiedono >>. 
Ma il padre - già indisposto per se stesso - si oppose recisamente allorché seppe che a rimpatrio il ragazzo non sarebbe tornato più. Occorreva dunque cercare altra strada. Totò del resto si era affezionato molto ai Cappuccini, e il padre, visto ch’egli non trovava pace fuori della vita religiosa, facendo dei sacrifici, affidò tutto al Padre Gaetano per farlo ammettere nel Seminario Serafico di Gela. 


VI 
In Seminario 

Inutile dire della gioia del giovinetto. Non sapeva come manifestare la sua gratitudine a Padre Gaetano, e diceva spesso ai parenti: - Cosa io potrò fare per lui? Certo non ho mezzi sufficienti per manifestargli la mia riconoscenza.
Il 24 Ottobre 1932 partì per il Seminario Serafico di Gela. In onta all’attaccamento assai sensibile della famiglia, se ne andò lieto. Gli si apriva la via già si a lungo sospirata e contesa, si vedeva messo decisamente sul cammino che doveva guidarlo a quel sacerdozio che gli aveva sorriso sin dai teneri anni, sogno radioso della sua piccola esistenza, che lo aveva deliziato sin da quando - ancora marmocchio - costruiva altarini e celebrava a modo suo la Messa. Inoltre lasciava quel mondo cattivo che sempre gli aveva fatto paura, perché quando la mamma talora gli aveva detto: - Totò, perché non vai fuori a divagarti un po’? 
- Mamma - aveva egli risposto con sapienza superiore all’età - mamma fuori ci sono tanti ragazzi cattivi, che dicono brutte parole; che farei con loro? -  
Adesso starà in un luogo sicuro. Avrà i suoi giuochi, i suoi divertimenti, le sue passeggiate; ma si troverà nella casa del Signore, dove tutti studiano per servirlo ed amarlo, dove tutto cospira a radicare nei giovinetti la grazia della vocazione e a meglio apprezzarla. 
Il dispiacere dunque di lasciare la famiglia e il caro nido dove era nato e dove aveva amato Dio e tutto ciò che lo circondava, veniva compensato e superato dall’ineffabile godimento di vedere avverato il sogno tormentoso del suo piccolo cuore. 
In verità egli non scrisse Diario nei due anni di seminario. Ma se l’avesse fatto, dovremmo leggere di sicuro poche pagine soffuse di tenerezza, di riconoscenza, di gioie ineffabili nel vedersi protetto da quelle mura sante, nel trovarsi fra tanti fratellini degli stessi sentimenti e mossi dal medesimo intento. 
Atteso lo studio saltuario e insufficiente compito in Mazzarino sua patria, si temeva in Gela che all’esame per l’ammissione regolare al 3° ginnasio non avrebbe dato buoni risultati. Invece Totò corrispose tanto bene, da lasciare sorpresi un po’ tutti. 
All’infuori d’una corrispondenza molto puntuale allo studio, alla pietà, al regolamento e alle norme che reggevano la disciplina di quel luogo, non troviamo molte cose da notare dei due anni che vi dimorò. 
Nello studio fu sempre dei primi o il primo, a testimonianza di tutti, compagni e superiori. Venne punito una sola volta, per un atto di carità. Il regolamento proibiva di fare i compiti agli altri o prestare i propri per avvalersene. Totò ch’era buono con tutti, talora cedeva alla pressioni, aiutando i meno intelligenti, e talora anche prestando i suoi scritti. Una volta venne scoperto. Il Direttore allora disse: - Avevo stabilito di rimandare a casa il primo che fosse per trasgredire questo punto; ma poiché Totò Scebba ha mantenuto sempre condotta irreprensibile, gl’infliggo la sola punizione di mangiare per tre volte in terra a pane e acqua. - 
Questa punizione la sentì abbastanza, tanto che gli vennero le lacrime agli occhi; ma non disse mai una parola né fece lamento con nessuno. 
Un altro fatto fu rivelato di quel tempo. 
Sin da bambino aveva egli nutrito il desiderio e l’anelito per le Missioni estere. Forse ne aveva inteso parlare, e probabilmente avrà letto anche dei libri. Il fatto si è che alimentava in petto il desiderio di rendersi un giorno anch’egli missionario e andare in terre lontane a predicare il Vangelo. 
Una volta che i suoi genitori andarono a visitarlo in Gela ( ed egli ci teneva tanto a rivederli ), si parlò in famiglia, di parenti e naturalmente del suo avvenire. Allora gli disse deciso: 
- Spero che Dio mi dia la grazia di divenire sacerdote e buon predicatore, perché mia volontà d’andare alle missioni. 
- Figlio mio - interruppe allora la madre - che dici? Ti potrebbero ammazzare gli indigeni! 
- Difenderò anch’io la fede - egli rispose - e se sarà possibile, darò la mia vita.
La cocente aspirazione al sacerdozio stava dunque legata a quelle Missioni lontane, ed era sì forte fin d’allora, da fargli facilmente superare l’attaccamento alla famiglia, molto radicato nel suo cuore. Soleva parlarne sovente, ed era sì espressivo nelle parole, da destare ammirazione. La mamma sua ha scritto: << Quant’era espressivo nel parlare delle Missioni, e come sempre ne discorreva con entusiasmo! >>. 

(1) Gino Longo, da Leonforte.
(2) Fu un giovinetto discolissimo, che a 15 anni si convertì, entrò nel seminario di Palermo e quindi tra i Cappuccini, morendo poi da santo nel Noviziato di Sortino nel 1886. C’è la vita stampata ed è in corso il Processo di Beatificazione.

 
FONTE: PADRE SAMUELE CULTRERA - MODELLO DI NOVIZIO FRA CANDIDO MARIA DA MAZZARINO CAPPUCCINO SCUOLA SALESIANA DEL LIBRO ROMA 1944 - VIA TUSCOLANA 361 


LAUS  DEO

Pax et Bonum


Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano

sabato 13 febbraio 2016

MODELLO DI NOVIZIO FRA CANDIDO MARIA DA MAZZARINO - CAPPUCCINO - PARTE SECONDA.




III 
 Infanzia santa 

Fra Candido, a testimonianza della maggior parte dei suoi compagni e superiori, fu dotato da Dio di un’indole così ricca di prerogative, da renderlo oggetto di stima fin dall’infanzia. 
Il lettore ha visto già nello << Sguardo d’insieme >> come la sua figura - delineata a larghi tratti - appaia straordinaria, soprattutto tenuto conto dell’età. L’insieme di ciò che staremo per dire non farà che confermarlo in pieno. 
Anzitutto diciamo che questo giglio candido è figlio di grazia. 
I suoi genitori - Gaetano e Angelica Scebba - da sette anni sposati, non avevano avuto ancora prole, e sembrava che il loro focolare dovesse rimanere deserto. Ma la madre, donna di fede, martellò tanto con le preghiere e i sospiri all’indirizzo di Sant’Antonio, e fece tante promesse, che il taumaturgo padovano ne coronò le aspirazioni e i sospiri, e il bimbo venne alla luce nel pomeriggio del 5 Gennaio 1920 battezzato poi dopo dieci giorni nella chiesa di Santa Lucia col nome di Salvatore, o Totò, come lo chiamavano in diminutivo. 
E questo bimbo di grazia si mostrò precoce in tutto. 
Prima dei quattro anni non solo aveva appreso le preghiere abituali, che le buone mamme siciliane hanno la santa abitudine di far apprendere ai figli, ma riuscendo il marmocchio a salire sulla sua sediola, talora le recitava a voce alta, e poi volgendosi alla madre, esclamava: 
- Mamma, non vedi come predico?
Sembrava avere fin dai teneri anni un istinto Divino verso il sacerdozio, che presto formò il suo ideale e la sua perenne aspirazione. Ideale che si fissò fin d’allora nella sua mente, e intorno ad esso s’aggirò la tendenza di tutta la sua vita. 
Dai cinque ai sei anni aveva appreso - e sempre volenteroso - tutto il catechismo dei piccoli, e dimostrava una precoce sodezza di spirito, da lasciare meravigliati. Chi non sa come i bambini, messo corpo e allungate le gambine, siano presi dalla nostalgia dei giochi e della libertà, per cui amano sottrarsi volentieri allo sguardo ansioso delle mamme? 
Totò invece trovava il suo mondo in casa e i suoi trastulli nell’ideale che gli sorrise sbocciando la vita. Sembrava aver paura delle strade e della gente. Lo deliziava il sorriso della mamma e tutta la sua gioia faceva consistere nel costruire altarini, sui quali collocava candele e santini, e poi, in unione con altri bambini che frequentavano la sua casa, cercava d’imitare i sacerdote alla Messa, mettendosi sulle spalle una tovaglia per pianeta, e terminando la sua messa sempre con la benedizione. 
Essendo il carattere molto dolce e tranquillo, la mamma lo conduceva spesso in chiesa, dov’egli stava bensì assai quieto, ma con gli occhi divorava ogni cosa, e poi, tornando in famiglia, s’industriava a modo suo di ripetere e ricopiare quanto aveva visto. Fin da piccino ebbe il desiderio della Comunione, e forte. 
In chiesa vedendo i fedeli e la stessa mamma sua andare all’altare per comunicarsi, egli le si aggrappava alle vesti, sperando di ricevere Gesù. Ma rimaneva deluso, e giunto a casa ( cosa insolita ) piangeva. Contava allora circa sei anni. 
- Sei ancora piccino! - gli diceva la madre. 
- E non cammino coi miei piedi?  
- Ma devi prima confessarti! Vorresti ricevere Gesù coi peccati? La Comunione non si prende come un po’ di pane! - 
Certi argomenti il bambino non li capiva. Vedeva fare la Comunione alla mamma e alla gente, e sentendo l’ansia di ricevere anch’egli Gesù, insisteva per averlo. Ma non ci riusciva. 
Una volta si trovò solo in chiesa, e visti i fedeli avvicinarsi all’altare, anch’egli vi s’inginocchiò, e come gli altri riuscì a ricevere la Comunione. 
Poscia, giulivo e come in trionfo, andò a dirlo alla mamma, che lo rimproverò. 
- Figlio mio, che hai fatto? Non si può senza confessione! 
- Mamma - rispose egli con quell’ingenuità che gli rimase fino alla morte - il Signore mi perdona; avevo desiderio grande di ricevere Gesù. Del resto ora mi vado a confessare e lo dirò al sacerdote, e poi potrò anch’io tutti i giorni fare la Comunione!
Disse ciò con tanto espressivo sentimento e con si delicate parole, che la madre non seppe che rispondere. 
Nel Giugno 1927 - quando Totò contava sei anni e mezzo - il Vescovo Mons. Mario Sturzo si recò a Mazzarino per la visita, e le buone famiglie, preparati i loro piccini, li facevano cresimare. La madre di Totò era ammalata, e il ragazzino, che voleva parteciparvi anch’egli, che per mezzo degli zii trovò il padrino, e dopo confessato e comunicato, riuscì a farsi cresimare. 
Tornato a casa, ebbro di gioia diceva: - Mamma, ora sono perfetto cristiano, poiché è disceso su di me lo Spirito Santo! -  
E non finiva di ripeterlo a parenti ed amici. 
Fortunatamente tutto ciò che riguarda la sua infanzia e l’adolescenza è stato diligentemente annotato, e a noi riesce facile metterlo sotto l’occhio del lettore. 


IV 
Scolaretto 

A sei anni fu mandato a scuola, e vi si trovò bene con compagni e maestri. 
Timido per natura, evitava le comitive chiassose e turbolente; non voleva aver da fare con rissosi e inquieti, fuggiva costantemente coloro che comunque dicessero parole e discorsi cattivi. Su di ciò fu sempre uguale. 
Suoi amici i buoni, e soprattutto coloro che manifestavano sentimenti religiosi. Egli, generalmente parco nel parlare, e piuttosto silenzioso, diveniva eloquente ed efficace quando si facevano discorsi religiosi. Invogliava a pregare e volentieri raccontava i piccoli fatti di Santi uditi in chiesa o in casa; e quando il suo udire faceva presa, influiva a rendere più buoni i compagni. Era benvoluto da molti e stimato da tutti, anche dai maestri, che ne notarono << l’indole serafica >>, il carattere docile, la perspicace intelligenza, dicendo << un ragazzo a posto >>. 
Non si adirava mai, ed allorché lo disturbavano diceva: 
- Mio Dio! E perché mi disturbate? - 
Quando i genitori lo rimproveravano per piccole mancanze, non chiedeva mai la ragione, né rispondeva con scuse. Rimaneva mortificato, sì , ma silenzioso. 
Tornando da scuola, prima preoccupazione era di soddisfare i compiti, rifiutando sovente di mangiare. La mattina, andando a scuola, si metteva il pane in tasca, per mangiarlo lungo il cammino, ma sovente, intenerito dal vedere i poveri, lo dava ad essi, tanto che i compagni lo burlavano, poiché egli ne restava senza. Né frequentando la scuola diminuì di fervore. La fedeltà alla preghiera e alle devozioni era in lui ammirabile. La mattina si soleva alzare presto, per prepararsi i compiti; ma scendendo dal letto, << si metteva in ginocchio per ringraziare il Signore e dire le sue preghiere >>. Se la sera lo coglieva per istrada, sentendo suonare l’Ave Maria, si scopriva per recitare l’Angelus, levando di tasca la corona del Rosario. 
Prima di andare a dormire pregava a solo per circa mezz’ora; ciò che ai parenti recava meraviglia. Ma la scena più cara e soave era vederlo nel letto quando dormiva, con le braccia conserte sul petto e un Crocifisso in mano, vicino al cuore. Non lo abbandonava mai. Né fa meraviglia la mamma, a vederlo s’intenerisse e lo baciasse delicatamente. Quella faccina d’angioletto e quell’atteggiamento serafico di preghiera, mentre il corpo dormiva, dicevano, con un linguaggio Divino, più d’un libro e d’un poema. 
Non è certo cosa ordinaria vedere un ragazzo di questo genere. Tutte le manifestazioni di pietà e di fede di quest’angioletto hanno un significato profondo, che non può lasciare indifferenti. Nell’età in cui la febbre dei giochi e l’ebbrezza dei godimenti mette in orgasmo l’anima dei fanciulli, Totò solo ama la solitudine e la quiete, la preghiera e il ritiro, e ai suoi stessi trastulli dà un impronta di fede e di soprannaturale. 
Quando la mamma faceva il pane, egli, chiedendo dei pezzetti di pasta, s’industriava di farne una bella ostia, o un calice, o un ostensorio, o un Crocifisso, o un Gesù Bambino, che mostrando alla mamma diceva: 
- Vedi, mamma, com’è bello? - 
E rimaneva estasiato della sua opera. 
Chiedeva sovente ritagli di stoffe, e poi, mettendosi sul tavolo, vi disegnava Madonnine o Angioletti, ovvero - ciò ch’è più sorprendente - prendeva l’ago, e ve li ricamava con le sue manine. Sovente si pungeva, ma non per questo smetteva, anzi non si stancava mai. La madre tiene ancora gelosamente in serbo questi infantili cimeli. 
Altra notevole constatazione: Totò non conosceva il pianto. I suoi stessi ne erano meravigliati. 
Avido di letture sin dall’infanzia, quando non trovava da fare, prendeva i suoi libretti - in genere Vite di Santi - e vi s’immergeva con serenità e diletto. Crescendo vi accudiva tanto, che la madre se ne preoccupava, e: 
 - Totò, figlio mio - gli diceva - sempre con questi benedetti libri? - Egli allora, senza neanche osare guardarla, si alzava subito e cercava di occuparsi di altro. Ma poco dopo, gira e rigira, i libri lo invogliavano, e dimenticando i richiami della madre, vi s’immergeva di nuovo. Tra giochi e libri, preferiva questi. 
Non c’è che dire, ivi è il tuo cuore, dov’è il tuo tesoro. 
Una volta la mamma, vedendolo sempre rinchiuso a studiare nella sua stanzetta, lo prese per un braccio, e: 
- Va - gli disse - vattene fuori, figlio mio, va a svagarti un po’! come si fa a star sempre a tavolo? 
- Mamma - egli rispose con serietà - fuori ci sono tanti ragazzi che dicono brutte parole. Cosa farei con loro? -  
Né crescendo negli anni si spostò mai da questo agire. Anzi risulta che progrediva nella pietà. Il Rosario lo recitava ogni giorno con la mamma, spesso la mattina andava a Messa e vi faceva la Comunione. Le chiese che frequentava erano principalmente quelle di Santa Lucia e di Santa Maria di Gesù, e in seguito, a 13 anni, quella dei Cappuccini. 
Le sue devozioni principali erano per Gesù, lo Spirito Santo, la Madonna, San Francesco d’Assisi, San Luigi Gonzaga, Santa Teresina del Gesù Bambino. 

FONTE: 
PADRE SAMUELE CULTRERA - MODELLO DI NOVIZIO FRA CANDIDO MARIA DA MAZZARINO CAPPUCCINO SCUOLA SALESIANA DEL LIBRO ROMA 1944 - VIA TUSCOLANA 361 


LAUS  DEO

Pax et Bonum


Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano
 

lunedì 8 febbraio 2016

MODELLO DI NOVIZIO FRA CANDIDO MARIA DA MAZZARINO CAPPUCCINO - PARTE PRIMA.

 

Ho proposto di farmi santo 
 a qualunque costo. ( dal Diario ) 


 I. 
Il perché di queste pagine 

Che fece questo giovinetto per meritare una biografia? 
Di straordinario, nulla. E nondimeno può dirsi di lui quanto dei migliori santi: << Fece tutto come gli altri, ma nessuno come lui >>. 
Per chi sa apprezzare il valore morale della vita, e soprattutto per chi ha conoscenza dell’ascetica e della mistica, questa frase vale da sola un volume, anzi un poema. La santità consiste nel vivere distaccati dal mondo e uniti alla volontà di Dio, assidui alla preghiera e alla mortificazione, operando tutto con perfezione e con purità d’intenzione, sforzandosi di spingersi sempre innanzi nelle virtù e nell’amore del prossimo, dominando le proprie passioni e soffrendo con pazienza le molteplici contrarietà dell’esistenza. Ebbene, tutto ciò emerge dalla vita di questo << angelico giovinetto >>, che passò dal mondo senza contaminarsi e senza averlo conosciuto, che assillato soltanto dal pensiero di consacrarsi a Dio, non ebbe altra fama che di servirlo e di stringersi a lui. Invitati a scriverne un cenno (1), pur avendo avuto intima conoscenza del suo spirito e della sua bontà, in principio restammo perplessi; ma esaminati il cospicuo materiale raccolto (2) e invitatoci, la figura del piccolo Novizio ci apparve in una luce aureolata di sovrumano. 
Due fati ci colpirono nel complesso maggiormente: la sua linea di condotta, dall’infanzia alla morte, sempre diritta, uguale e senza alcuna flessione; e poi l’armonia meravigliosa tra il Diario del suo noviziato e le circa novanta relazioni stese dai compagni o conoscenti. Cosa questa non ordinaria. 
Portare quindi a conoscenza di tutti le qualità sante di questo giovanetto privilegiato; svelare le caratteristiche dello spirito di questa creatura eccezionale e fare emergere la sete di virtù di perfezione del cuore di questo fanciullo, è sicuramente rendere un servizio alle anime. Ne è cosa di poca importanza additare questo olezzante fiorellino di purezza al mondo che affoga in un mare di turpitudini e di fango; far respirare un’aria di cielo alla nostra generazione, avvelenata da un’atmosfera di tenebre di menzogna (3). 
Fortunatamente i dati precisi e abbondanti che possediamo, ci consentono di lumeggiarne a sufficienza la figura al completo e di farne gustare tutto il fascino soave. I nostri terziari poi, e coloro che ignorano la vita che si svolge nei noviziati, potranno facilmente prenderne conoscenza e formarsene un’idea attraverso le pagine di questo scritto. 
Nell’insieme preferiremo far parlare coloro che lo conobbero e ne scrissero, poiché alle virtù e alla perfezione di Fra Candido rendono volentieri testimonianza non solo i suoi compagni che perseverarono nella vita religiosa, ma anche coloro che se ne tornarono al secolo. La fisionomia morale di lui è rimasta indelebile nel loro spirito, per cui hanno tracciato pagine commoventi e ricche di ammirazione. 
Siccome poi questo candido giglio languì e s’estinse poco dopo del noviziato, abbiamo preferito di chiamarlo Modello di Novizio
A maggior soddisfazione del lettore amiamo citare volta per volta il nome di coloro che saremo per seguire nell’esposizione di queste pagine. 

II. 
Sguardo d’insieme 

Prima di far cenno delle particolarità della vita di quest’angelico giovinetto, giova presentarlo in uno sguardo d’insieme, che farà gustare meglio lo sviluppo successivo. Sguardo d’insieme che si vedeva di lui e venne notato principalmente dai compagni e in genere anche dei superiori; e ciò non soltanto del tempo che fu frate, ma altresì di seminarista e di secolare. 
Non faremo che riferire le parole stesse delle relazioni. Ecco i suoi lineamenti esterni: << Aveva faccia bislunga, sguardo mite, lineamenti gentili, labbra atteggiate a sorriso, coloro leggermente pallido >>. Quadro preciso, che riceve però un complemento da questa geniale pannellata : << Viso bianco, roseo, simpatico, con occhi limpidi, sorriso composto e sereno, pulito nella persona e gentile, sembrava fanciullo sui 12 o 13 aani, quanto ne contava 16 >> . (4
Egualmente esatto è il profilo morale, che tutti en tracciano, quasi usurpandosi, senza saperlo, il pensiero e talora le parole. 
Eccone uno: << Quell’andamento dimesso e composto di Fra Candido, quell’atteggiamento umile e mite, quel tratto sempre dolce e cortese, quelle labbra atteggiate a sorriso, quello sguardo puro, semplice, sereno, tranquillo, quell’agire rispettoso e caritatevole, quell’amore alla solitudine e all’oblio, quello stato d’animo gaio e giocondo; insomma la sua semplicità, il candore, la mitezza, la carità, la pietà e la regolarità, dovevano supporre un’anima dotata di qualità non comuni, un’anima privilegiata >> (5). 
Come i lettori vedono, ci presenta qui la figura di un angioletto. E tutti vi fanno eco, con una consonanza sorprendente, pur guardandolo ognuno da una visuale differente. 
<< In qualsiasi circostanza - dice un altro (6) - dimostrava il suo animo nobile e gentile. Lo vidi quasi sempre giulivo. Nella ricreazione, più che prendere parte ai nostri giochi, si divertiva ad assistere solamente. Mai litigò con alcuno, ciò che capita spesso ai monelli, e in scuola era l’invidia dei compagni. Dotato di speciale intelligenza, non si rifiutava d’aiutare i condiscepoli. Mi sembrò angelo di purità e di candore >>. 
Questi tratti, che dicono già molto, potrebbero bastare. Nondimeno ecco un linguaggio ancora più caratteristico: 
<< Non ricordo difetti in lui - aggiunge un altro compagno (7). A scuola non veniva mai impreparato, oggetto d’invidia e d’ammirazione da parte di tutti. I professori lo lodavano, ma egli non se ne insuperbiva, né disprezzava i compagni, anzi li aiutava. La sua condotta era irreprensibile anche fuori scuola. D’una modestia e d’una bontà encomiabili, aveva un’anima candida e pura come un giglio >>. 
Non sappiamo de d’un santo di questa potrebbe dirsi di più. Ma non vogliamo omettere il rilievo d’un quinto compagno (8), rilievo che non manco d’interesse, soprattutto se si pensa che si sta parlando d’un ragazzo: << Non viveva di quegl’ideali - dice costui - di cui generalmente s’illudono i giovani. Era molto pratico e di buon senso. Non di pietà sdolcinata, né di contegno grossolano. Nel parlare era schietto e semplice, come il suo animo. Rideva nella ricreazione, era molto affabile, non offendeva mai alcuno. Nella castità era esemplare, e, senza esagerazione, era un puro >>. Questi soli appunti fissano già bene la fisionomia di Fra Candido, e ne fanno emergere a sufficienza l’aspetto, il carattere, le tendenze, le prerogative. Né son cose queste che possono dirsi con facilità di altri. Desideriamo nondimeno che la sua figura si delinei fin d’ora nitida anche nelle sue parti, e all’uopo vogliamo spigolare qualche frase dagli scritti di altri, in modo che il lettore possa in seguito valutarne i dettegli, gustarne il fascino, e all’occorrenza subirne l’influenza e imitarne l’esempio. Ma ci limiteremo a qualche frase soltanto, lasciando il resto per lo sviluppo del seguito. 
Uno dei maestri elementari - il Prof. Arena Gurrieri - che lo ebbe in scuola, lo chiama << angelico alunno >>, e un altro lo dice di << indole serafica >>. Quasi tutti i suoi compagni lo dicono << ingenuo e prudente >>, o << mite ed innocente >>; << dotato di memoria fenomenale >>, risultando sempre << primo nelle scuole >>. 
Riguardo alle sue virtù e perfezione si riscontra la stessa armonia e consonanza, in tutti. E detto << buono, virtuoso, fervoroso, modello nell’adempimento del proprio dovere e nell’osservanza del Regolamento >>, ovvero << buono, silenzioso, puro come un angelo >>, ovvero ancora << umile, mansueto, affabile, animato da desideri di maggiore perfezione >>. 
E faccio punto. Uno dei compagni, temendo d’essere creduto esagerato, dice: << Quanto ho detto non deve sembrare troppo >>, perché non sapeva come esprimere il suo animo. Del resto come il lettore vede, ce n’è d’avanzo per una biografia. 

1) L’incarico ci fu dato subito dopo la sua morte nel 1936; ma altri lavori ce ne han distolto finora. 
2) Dal Padre Bernardino da Sortino, attuale Maestro dei Novizi, in Calascibetta. 
3) Biografia già pubblicata a puntate su varie riviste della penisola, quali gli Annali Francescani di Alessandria, la Voce Serafica di Roma, la Campania Serafica di Napoli; ma poi, attesa la limitazione delle pagine a causa della guerra, ne fu sospesa la pubblicazione, quando si era giunti al capitolo XVII. 
4) Fra Venanzio da Mazzarino. 
5) Fra Giovanni da Palazzolo Acreide. 
6) Fra Venanzio. 
7) Bognanni Vincenzo, da Mazzarino. 
8) Salvatore Petralia, da Mazzarino. 

FONTE:
PADRE SAMUELE CULTRERA - MODELLO DI NOVIZIO FRA CANDIDO MARIA DA MAZZARINO CAPPUCCINO - SCUOLA SALESIANA DEL LIBRO ROMA 1944 - VIA TUSCOLANA 361


LAUS  DEO

Pax et Bonum


Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano 

martedì 2 febbraio 2016

IN MEMORIA DEL M. R. P. GIAMBATTISTA DA FERLA CAPPUCCINO ( 1882 - 1952 ) SESTA ED ULTIMA PARTE .




Rev.mo Padre Superiore del Convento PP. Cappuccini Ferla. 


Nell’esprimere le mie condoglianze per l’estrema dipartita del carissimo Padre Giambattista, voglio ricordare la dolce figura del Sacerdote mite, buono e pacifico, che cosciente della sua alta vocazione e del suo ministero, attese sempre alla propria santificazione, alieno da fazioni e di scismi e proclive a quella pace che unisce e affratella. 
Egli, cultore di vera pietà, aveva un preciso concetto della formazione nelle anime e soleva spesso ripetermi: “ Nel nostro ambiente si è tanto malinteso, si è creduto di aver fatto molto, ma al rovescio; giammai potrà presumersi miglioramento di anime quando manca la dolce armonia, che dà precisa la visione della virtù del bene, del dovere ” . 
Nell’anima per la formazione ascetica soggiungeva: “ nessuno deve presumere di essere al vertice, c’è sempre un gradino più alto da salire ed una cima più elevata da conquistare ”. 
Per questa la sua conversazione fu sempre umile e quale sacerdote prudente, mai nei giudizi sostenne le proprie convinzioni col disprezzo di quelle degli altri. Resta dunque nostro esempio e nostra norma di vita per la sua modestia sacerdotale e francescana . 

Ferla 3 - Dicembre 1952 

                                                                Parroco Luigi Mirabella


FINE...

 LAUS  DEO

Pax et Bonum


Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano